COMMENTO SUGLI INSEGNANTI
Quattro insegnanti avevano un sogno: insegnarci qualcosa e vi ci si impegnavano con un accanimento che non esito a definire terapeutico (frase di moda...). Il loro accanimento era un sogno? Noi ne abbiamo il sospetto, ma alla fine i quattro vinsero la sfida e riuscirono a prepararci.
Così ci appariva l’ottima signorina (allora) Grosso, insegnante di latino e greco, in prima liceo, quando entrava in classe. Pur essendo pacata nel parlare, era difficilissima l’impresa di seguirla, tant’è che, dopo tre mesi dall’inizio dell’anno, eravamo ancora alla questione omerica, di cui io però continuavo ad ignorare l’origine, gli sviluppi e l’utilità. Ma, a quel tempo eravamo ignoranti, non ci rendevamo conto che la base della cultura era proprio la formazione teorica. Io, poi, lo sono rimasto, perché mi ostino a provare indifferenza per la suddetta questione, convinto come sono che la classicità consista nello spirito e non nella lettera. Mi piacciono i lirici greci, ma tradotti, così come mi piace tutta la filosofia greca, ma sempre tradotta.
Fatto sta che ogni apparizione della professoressa era, per noi, causa di stress, di orticaria. L’acme si raggiungeva nelle interrogazioni, che, di greco, consistevano in tre domande secche: tre forme verbali da scrivere alla lavagna, con accenti e spiriti giusti. Ad esempio, diceva: ‘imperfetto duale del verbo lambano,o seconda singolare aoristo di ctizw e terza plurale futuro passivo di rabdoucew. Dopodiché, gesso alla mano, il disgraziato, in cui la scarica di adrenalina aveva già terminato il suo effetto, si ritrovava solo, con un gesso in mano, in perfetto silenzio, di fronte ad una lavagna che più nera di così non poteva sembrare. Criterio di valutazione: tre risposte esatte (accenti e spiriti compresi) valevano otto; due risposte esatte valevano cinque e una sola risposta esatta valeva quattro. Per zero risposte esatte c’era il tre.
E non c’era appello.
In terza liceo avevamo, di scienze, il professor Mario D’Antona, un docente con un’aria vagamente luciferina, barbetta compresa. Aveva un concetto particolare della prima interrogazione, essendo fedele al motto: la prima impressione è quella che conta. Infatti, ognuno di noi si portò dietro, per tutto l’anno, il voto avuto nel primo impatto. Lo svolgimento del programma era pignolo e regolare; le interrogazioni, sempre casuali, erano distribuite in numero uguale per tutti. La prima, come ovvio, era la prima; perciò uno si meritava quel che si meritava. La sorpresa veniva con la seconda: qualunque fosse l’esito oggettivo, ci veniva attribuito il voto precedente, con leggerissime variazioni. Il povero Gallo (povero anche per l’immatura scomparsa), che era più bravo di me, nella prima interrogazione zoppicò un po’, per cui si prese sei. Nella seconda, e in quelle successive, pur essendo brillante, non andò più in là del sei più o del sei e mezzo; al contrario, a me, che nella prima risposi casualmente benissimo, mi venne attribuito un otto che mi portai fino alla fine, malgrado un immeritato otto meno e un ancor più immeritato sette e mezzo più.
Parlava con voce lenta e molto nasale e rimase famosa una sua interrogazione-lampo.
- "Parlami dei pesci".
Il malcapitato compagno, oggi ottimo professionista, non era preparato e cominciò a balbettare o, meglio, a menare il can per l’aia:
- "I pesci... sono grossi...".
L’interrogato si rinfrancò, convinto di aver infilato la strada giusta:
- "Quando non sono grossi... sono piccoli!"
- "Bravo, vai a posto. Quattro".
Ma anche nella sua materia, all’esame arrivammo preparati.
Il professor Vautero manifestò subito la sua qualità: la verità. Infatti, non tardò molto a dirci che il greco non lo sapeva bene, anzi, lo sapeva poco e basta, ma aveva dovuto accettare quella cattedra, per non rimanere a spasso, lui, reduce da tanti anni di guerra. Oggi tutti avrebbero protestato, studenti, genitori, noglobalisti, eccetera. Allora, facemmo una cosa molto semplice: prendemmo atto della situazione e decidemmo ugualmente di studiare il greco per conto nostro, cosa che, sia pure a fatica, ci riuscì a meraviglia.
Il professore un giorno si trovò di fronte al participio passato del verbo diariqmew:ð ð c o m e tradurlo? Mentre arzigogolava su tale parola, non riuscendo a trovare un soddisfacente equivalente in italiano, io mi ero distratto e stavo parlando con G. B., nel banco dietro. Gli facevo vedere che, per far prima, avevo comprato il libretto edito dalla Dante Alighieri, che aveva il testo greco interlineato con quello italiano, parola per parola, il che facilitava di molto lo studio della traduzione. Come al solito, parlavamo sottovoce e in dialetto, ma G. B., che non conosceva i testi interlineati della Dante, rimase colpito e mi disse che avevo soltanto dei capricci, dei vizi: "di vissi se t’n’hai!" (dei vizi se ne hai!).
Nel silenzio generale, quella parola "di vissi" mormorata da G. B. giunse all’orecchio del Vautero.
- "Chi ha detto divisi?"
Si vede che studiò ancora meglio, perché, come si dice, sfondò nella sua professione.
Don Castagneri ci insegnava religione in un periodo in cui non si pensava nemmeno di chiederne l’esonero, non solo perché pochissimi si dichiaravano apertamente di altra religione o antireligiosi (atei non basta), ma soprattutto perché si era ancora convinti che tutta la cultura occidentale fosse permeata di cristianesimo; specie in un liceo classico, sembrava utilissimo conoscere il più possibile il cristianesimo per comprendere sempre meglio gli autori e i filosofi che col cristianesimo sono scesi a singolare tenzone, chi per difenderlo e chi per attaccarlo.
Non ricordo nulla del suo insegnamento, se non due obiezioni che gli posi, con risposte da parte sua (rispondeva sempre), che non mi convinsero del tutto, allora. E nemmeno ora.
Chiese a noi studenti il perché delle preghiere. Ognuno diceva la sua, ma non era mai giusta. Allora, un pochino stizzito, dissi la mia: "Perché a Dio piace essere pregato, piace vederci in ginocchio".
Fresco dello studio delle categorie aristoteliche, forte di una logica che credevo ferrea, mi sembrava sciocco attribuire a Dio sentimenti umani, anche un po’ meschini; mi sembrava inconciliabile che un Dio definito onnisciente avesse bisogno dei nostri suggerimenti per sapere ciò di cui avevamo bisogno. Invece, don Castagneri mi rispose proprio che Dio voleva sentirci pregare. Bah!
La seconda obiezione la feci a proposito della bontà e dell’onnipotenza divina. Mi sembravano, e mi sembrano, due attributi inconciliabili: un onnipotente può anche essere cattivo. La risposta fu che il metro di Dio non è quello degli uomini, il che lasciò tutto nel vago.
Comunque, diventammo (apparentemente) buoni cristiani.
Sono i quattro docenti che, più di altri, hanno inciso sulla nostra formazione, anche se è esagerato definire apocalittico il loro apporto.
La bionda professoressa Reviglio parlava in modo vivace e si vedeva che era intelligente. Sapeva anche comprendere ed ascoltare. Le sue lezioni non pesavano; le ore scorrevano quasi con interesse, il che per uno studente è il massimo. Non era formalista e sapeva arrivare alla sostanza di ogni problema letterario, con semplicità, con calore, a volte con ironia. A quel tempo, le interrogazioni non erano mai preannunciate e ci si doveva arrangiare sui calcoli probabilistici per tentare di capire a chi sarebbe toccato e a chi no. Rimase famoso un trimestre (le interrogazioni erano, normalmente, due per trimestre) in cui ci accorgemmo che diciannove di noi avevano un’interrogazione, uno, P. G., ne aveva già due e uno (chi scrive) nessuna. Da quel momento, chi scrive si teneva sempre pronto alla chiamata, mentre P. G. viveva abbastanza tranquillo. Che fece la bionda Lucia? Chiamò per la terza volta P. G. Sembrava che lo scherzo fosse finito, invece l’imperterrita giunse fino a sei interrogazioni per P. G. prima di chiamare, per la prima ed unica volta, lo scrivente.
Era Agostino Vinassa, un professore di greco (poi ottimo preside di grosso istituto in quel di Torino), che ci avvinceva con la sua immediatezza, la sua schiettezza, la sua baritonale tonante voce, le sue battute. Mai come quell’anno amammo il greco e ciò dimostra come il mestiere di docente sia difficilissimo. Nessuno al Liceo ama il greco se non c’è un professore che riesce ad entusiasmare ad ogni lezione, ogni giorno, ad ogni inizio di paragrafo, ogniqualvolta si affronta un nuovo poeta lirico greco.
Quando leggeva e traduceva dal greco lo faceva agitando le braccia, passeggiando davanti ai primi banchi, dalla porticina che dava sul piccolo laboratorio alla finestra che si affacciava su corso Vittorio. Successe, un giorno di primavera inoltrata, che, giunto declamando ad alta voce fino alla predetta finestra, si interrompesse di botto, si voltasse verso di noi ridendo ed esclamasse: "Ma quanto sono distratto (veramente disse un’altra cosa) ad urlare così in lingua greca dalla finestra. Oggi è venerdì (giorno di mercato a Bra) e la gente si volta a guardare perplessa me che sbraito dalla finestra in una lingua sconosciuta!".
Ho sempre augurato ai miei figli di avere professori come Vinassa, come Reviglio, come Vallauri e come Porro.
Quanto parlava, quanto parlava la professoressa Maria Domenica Vallauri (nata Pettazzi) a noi truppa e quanto ci piaceva essere interrogati da lei, perché le andava sempre tutto bene, qualunque cosa uno dicesse. La credevamo facilmente imbrogliabile, poco accorta nell’accorgersi delle nostre volontarie disattenzioni, del nostro preoccuparci della lezione successiva. Insomma, credevamo di non studiare Storia dell’Arte. Non fu così. All’esame di maturità reggemmo magnificamente (anzi, con incredula superiorità) il confronto con altre classi, a significare che il suo insegnamento era didatticamente perfetto: non ci stressava, non ci affaticava, non ci sgridava, non ci faceva sgobbare; si sgolava soltanto, ma, alla fine, sapevamo tutto su Pinturicchio e compagni.
Chi scrive ha un ricordo particolare, di cui si pente. Un giorno, la professoressa Vallauri giunse in classe quasi piangendo, affranta, distrutta, brutta insomma. Come tutti i giovani, eravamo crudeli e non ci preoccupammo minimamente di saperne di più. In effetti, aveva il marito gravemente ammalato (poco dopo morì), ma non lo sapevamo. Ovviamente, non aveva testa a parlare del gotico lombardo e, per prender fiato, ci disse: "Compito in classe. Prendete un foglio e scrivete" e giù l’argomento, che non ricordo. Panico in tutti e venti noi compagni, quasi arrabbiati nel vedere la nostra Vallauri cambiar sistema di punto in bianco. Anche a me giravano i corbelli.
Tutti ci buttammo a cercar di copiare dal libro di testo, ma non era facile, perché non potevamo farci vedere a sfogliare pagine e pagine di testo. Era un mormorare a bassissima voce "A che pagina è?".
Poiché, casualmente, l’avevo subito trovata, l’avevo indicata ai miei due vicini. Ma mi giungevano richieste da ogni parte e, poiché m’ero accorto che la Vallauri aveva capito, con aria di sfida dissi ad alta voce: "E' a pagina 82!".
- "Vai fuori", mi disse la Vallauri senza crederci. Poiché avevo preso gusto alla sfida, mi alzai impettito e, facendo il giro davanti alla cattedra, me ne uscii fiero del mio coraggio. La cosa finì lì.Grazie professoressa Maria Domenica Pettazzi Vallauri per il tuo insegnamento e per la tua compagnia.
Signorina farmacista Porro (e il nome?) dove sei? Dov’è il tuo dolce sorriso, la tua pazienza nello spezzarci i grissini della scienza, la tua bontà nel dirci soltanto a fine anno che ti accorgevi benissimo quando qualcuno cascava dal sonno (le avevano messo un’ora di scienze alle due e mezza del pomeriggio)? Com’erano precise le tue lezioni di scienze naturali, le tue spiegazioni sui piselli bianchi e piselli neri della legge di Mendel!
Mi vien di scrivere di te in modo retorico, perché ti vedo come una principessa Sissi non capricciosa. Hai lasciato la scuola subito, attratta da professione più remunerativa; ti capiamo, ma la scuola ci ha perso: quel che so di scienze naturali l’ho imparato da te (oltre che dal mio maestro delle elementari), in lezioni che avevano il gran pregio di non pesarci. Grazie non solo per le lezioni di scienze, ma per la lezione di competenza, di modestia, di pazienza.
Sono tutti gli altri docenti che ebbimo in quei tre anni. Senza mai venir meno al proprio dovere, con un’attività didattica appropriata e corretta, non mi colpirono mai in modo speciale, per cui non è facile ricordarmi di loro.
Fu il docente che ci avviò alla filosofia in prima e seconda. Preciso e puntuale, con voce sempre uguale e un po’ in falsetto, diceva cose sagge e profonde, da uomo che conosce bene la propria materia. Aveva un’abitudine: non si fidava del libro di testo, anche se adottato da lui. Per questo motivo, le sue lezioni erano un continuo prendere appunti. Parlava lentamente, in modo che si potesse trascrivere esattamente ciò che ci diceva. Mi risulta che qualche compagno abbia tutt’ora i quaderni con gli appunti di allora.
Era timido e un giorno, terminata la lezione ed avviatosi ad uscire dall’aula, incrociò il professor De Mari che stava entrando per quella successiva. Questi, con le sue battute estroverse da romanaccio, gli disse: "Ciao Rossano, vai a fare dettato?"
Divenne rosso ma non disse nulla. E continuò a dettare.
Fu l’insegnante di filosofia e storia in terza. Era più un compagnone che un docente e le sue lezioni erano più piacevoli, anche se non avevano la profondità di quelle del professor Rossano. Mi pare fosse impegnato in politica, nel Partito dei Contadini, ma non ricordo nulla di più.
aDa quel momento, ci fu chi lo chiamava il professor Quantunque. Questo mi fa pensare agli anni del Ginnasio, in altra scuola, dove era adottata la sintassi latina del Rubrichi. Tutte le volte che l’autore affrontava un nuovo caso, diceva pressappoco così: "A volte la concordanza avviene..., eccetera, eccetera (punto e a capo). Orbene, in siffatti casi...". Quella sintassi fu chiamata l’Orbene e si diceva tranquillamente: "Ddomani dobbiamo portare l’Orbene".
Docente di educazione fisica. Ci intratteneva senza grossi problemi né grosse pretese. Faceva il suo lavoro onestamente, com’era possibile in una scuola senza palestra, senza campo, con un cortiletto da spartire coi bambini delle elementari. Era il dopoguerra e non c’era tempo per misure di sicurezza e cose del genere; di attrezzi, nemmeno parlarne. Eppure, sopravvivemmo. Anche lui era impegnato in politica e anche lui, mi pare, col Partito dei Contadini.
Fu, per tre anni, il nostro docente di matematica e fisica, ma di lui parla a parte un compagno. Aggiungo solo che non si lasciava intimidire e che, quando un compagno di altra classe assurse agli onori delle cronache per aver scoperto (così asseriva) il modo di fotografare il passato, egli disse subito che era una balla e a quel compagno, che all’interrogazione si dimostrò impreparato, diede tranquillamente quattro.
Un compagno qualunque
Qualcuno si chiederà perché il predetto lavoro porti la firma di ‘un compagno qualunque’. Era stato chiesto di farlo a più compagni ma nessuno aveva dato risposta. Ci è pervenuto infine lo scritto così firmato e non si è mai saputo da chi. Dobbiamo comunque dare tutti atto che nel triennio siamo stati accompagnati e seguiti da uno staff di insegnanti di notevole livello che ci ha sicuramente aiutati a raggiungere i nostri risultati.1
1Si sa benissimo da chi, ma il compagno Ferrer, avendo già scritto altri pezzi, preferiva non dar l’idea di voler prevaricare. |