Anna Guasco Mainardi

TUTTO DOPO 1

Giovanni Battista Franco è stato il primo compagno di scuola di mio marito che ho conosciuto.

Avevano frequentato il liceo classico ‘Govone’ di Alba, nella sezione staccata di Bra, ed erano nella stessa classe e nello stesso banco.

Io allora ero poco più che una ragazzina, credo fosse l’estate del 1957, mi trovavo in vacanza a La Morra, dove avevo conosciuto Guido, che abitava in quel grazioso paesello langarolo e non pensavo minimamente a sposarmi.

Gianni lo vidi in piazza, alto e magro. Da Pollenzo dove abitava, era venuto a trovare il suo amico del cuore e ci chiese di fare un giro con lui.

Io quel giorno però ero invitata ad una festa, in una bella villa di un mio corteggiatore a cui per nulla al mondo volevo rinunciare, così Guido si scusò con l’amico e sebbene a malincuore venne con me.

Guido, il giorno che mi ha conosciuta decise che mi avrebbe sposata e quando si mette in mente una cosa di solito riesce ad ottenerla.

Lui ha sempre asserito di essersi innamorato di me a prima vista, ma sua mamma che era un tipo pratico diceva che mi sposava perché sapevo stirare le camicie.

Io, infatti, sin da bambina avevo imparato a svolgere bene tutti i lavori di casa, come usava a quel tempo, e. con un padre e tre fratelli, lo stirare era un compito quasi quotidiano.

Verso la primavera ho rivisto Giovanni Battista (detto Gianni); era laureato in legge e credo iniziasse la carriera in magistratura.

Arrivò a casa mia a Torino, con Guido e la sua fidanzata Maddalena (detta Magda). Mi invitarono ad uscire un po’ con loro ed a cena fuori.

Ricordo che Magda aveva un vestito di velluto rosso, era anche lei alta e magra, ma non saprei assolutamente dire che macchina avesse Gianni (forse una ‘600?).

Andammo tutti e quattro al Colle della Maddalena e poi a Moncalieri a cenare a ‘La Grotta Gino’, ma io ero talmente agitata all’idea di stare fuori con un ragazzo, e temevo anche un po’ i rimproveri dei miei genitori, che cominciai a sentirmi male ed a cena non riuscii ad assaggiare assolutamente nulla.

Gianni e Guido per rincuorarmi decisero di farmi bere un po’ di cognac, che ebbe l’effetto di provocarmi una nausea terribile.

Per un po’ di giorni stetti male e pensai seriamente di smettere di vedere Guido o qualunque altro ragazzo. Per anni appena odoravo un liquore mi sentivo svenire.

Poi ho conosciuto Angelo Abbate Daga. Ci incontrammo in tram a Torino, io ero con Guido, lui con Marilù, che io conoscevo perché frequentava l’Accademia di Belle Arti come me. Anche Angelo era alto e magro e di lui mi colpirono i begli occhi azzurri, chiarissimi. Marilù, invece, era minuta e carina, bruna e con gli occhi scurissimi. Un tipetto vivace e simpatico. All’Accademia era considerata molto dotata e prometteva una brillante carriera artistica.

Feste e abbracci e la promessa di rivederci.

Ma com’è piccolo il mondo!

Il 4 settembre del 1960 Gianni Battista sposò Maddalena Costa ed io fui invitata al loro matrimonio a Canale, il paese di lei.

Per l’occasione mi feci fare un tailleur azzurro, carino.

Presi l’autobus in via Sacchi; non ero mai stata a Canale e non sapevo neanche in quale Chiesa e a che ora fosse il matrimonio. Tanto per cambiare, ero agitatissima e non mi sentivo bene.

Il paese era piccolino, trovai la Chiesa, trovai Guido.

Ci fu un pranzo lunghissimo con una marea di invitati. Tutto nella mia mente è un po’ confuso di quel giorno, ma mi è rimasto impresso di aver conosciuto proprio a quel matrimonio Irma e Guido Bodrato.

Credo che fossero sposati da poco e tutto il tempo conversarono fitto fitto tra loro. Sembra fosse molto tempo che non si incontravano; infatti, ad un certo punto Irma si scusò dicendo che si vedevano poco e avevano molte cose da raccontarsi. Lei aveva un sorriso bello e simpatico. Lui mi sembrò un po’ timido e riservato e seppi che stava avviandosi alla carriera politica.

Tra tutte queste coppie sposate o in procinto di farlo mi trovai anch’io trascinata al grande evento.

Guido aveva trovato un lavoro a Torino, io facevo qualche ora di scuola e incominciammo anche noi a preparare il nostro nido.

Il nostro matrimonio, cioè di Guido Mainardi e Anna Guasco, venne celebrato il 16 settembre 1961; io stavo per compiere 23 anni.

Mia suocera, da donna saggia, mi diceva che non ce l’aveva con me, ma che ero troppo giovane per sposarmi; oltre ad essere giovane dimostravo ancora meno dei miei anni.

Avevo l’aspetto e credo anche la testa di una bambina.

Sognavo.

Riguardando le fotografie, ho ricostruito che al nostro matrimonio vennero invitati alcuni compagni di scuola di Guido: Gianni Franco (la moglie no perché aveva avuto da poco il primo figlio), Irma e Guido Bodrato, Angelo Abbate Daga.

Dopo pochi mesi rimasi incinta anch’io e dopo un anno esatto nacque la nostra prima figlia.

Durante la gravidanza incominciai a soffrire per delle coliche di fegato, che mi facevano stare malissimo e che continuarono anche dopo la nascita di Monica. Radiografie e cure varie non davano nessuna diagnosi e nessun esito. Guido, disperato ne parlò col suo compagno Gian Carlo Turco, che si era laureato in medicina e che gli disse di aver sperimentato un nuovo metodo di cura. Egli venne a visitarmi mentre ero a letto in preda ad una forte colica ed incominciò a spiegarmi di aver sperimentato nuove tecniche per calmare il dolore con l’imposizione delle mani. Io ero alquanto scettica, ma feci finta di credergli, e così impose le sue mani sulle mie parti indolenzite. Dopo un po’ effettivamente il male passò, ma non seppi mai se per i calmanti, che avevo già presi o per il fluido emanato dalle sue mani.

Anche Gian Carlo Turco nel frattempo si era sposato, di sua moglie si parlava e tutti dicevano che era bellissima, ma io non l’avevo mai vista.

Una sera, tuttavia, ci invitò a casa sua, ma lei non c’era, era a Bra dai suoi genitori. Ricordo che lui ci portò nel tinello e tirò fuori dai cassetti per mostrarle tante scatole di legno con collezioni di farfalle e coleotteri. Aveva tantissime farfalle tutte ben infilzate con uno spillo. Ci disse che girava spesso con una retina ed aveva raccolto quasi tutte le specie del Piemonte. Io pensavo a dove sua moglie potesse tenere le posate e le cose necessarie alla casa.

Passando il tempo, il legame tra i compagni si rinsaldava sempre più. Anche Angelo e Marilù si erano sposati; una sera fummo invitati a casa loro e lui ci intrattenne al pianoforte. Si era laureato in ingegneria, ma la sua vera passione era la musica, e possedeva un magnifico pianoforte a coda.

Angelo è una di quelle persone capace di suonare qualsiasi motivo, anche se non l’ha studiato e su quel motivo continua con variazioni e invenzioni per ore. Un’altra passione di Angelo sono i fossili, di cui possiede una ricca collezione, tutti trovati da lui.

I Bodrato avevano già almeno due figli e lui era consigliere comunale.

Gianni Franco si stava avviando ad una brillante carriera di avvocato e dal piccolo alloggio di Pollenzo si era trasferito ad Alba in viale Torino, dove aveva comperato due o tre alloggi tutti sullo stesso piano, uno per abitarvi e gli altri per farvi il suo studio.

Una sera ci invitò a casa sua e lì conobbi Giovanni Ferrero e sua moglie Anna. Li trovai simpaticissimi, lui piccolino, vivace ed attivissimo, lei più pacata, buona ed altruista.

Anche lui lavorava nel mondo giudiziario ed in quel periodo si era trasferito ad Alba. Lei, come tutte le donne, si era dedicata all’insegnamento.

Dopo il matrimonio, continuai a trascorrere le vacanze estive a La Morra, dove mia suocera risiedeva svolgendo in quel paese la sua professione di ostetrica.

La casetta che abitava sembra piccolina, ma dalla soffitta alla cantina non è mai finita di pulire. Questa si trova in un grande cortile, circondato da case tutte cadenti e abbandonate.

Una volta vi abitavano due donnette che avevano delle galline, per cui nel cortile non vi era un filo d’erba; ora invece è diventato un prato e ogni anno è un gran lavoro tagliarvi l’erba che vi cresce. Io, per passare il tempo, spesso ho disegnato quei tetti rotti, quei rovi che crescono sui muri mentre mio figlio mi diceva: "Mamma, tutte le schifezze di La Morra tu le disegni". Ma nei quarant’anni del mio matrimonio niente è cambiato, solo un tetto è stato rifatto per evitare che crollasse una casa.

Lucilla l’ho conosciuta un’estate proprio a La Morra.

Ero andata in farmacia per qualche acquisto e non potei fare a meno di simpatizzare con la nuova farmacista, bella, giovane, allegra e con degli splendidi capelli ramati. Poi, quando la incontrai per strada mentre camminavo con Guido, rimasi stupita (con un pizzico di gelosia) di vedere come si baciavano e salutavano affettuosamente. Come facevano a conoscersi così bene? Ma, quando seppi che erano stati compagni di scuola, la mia simpatia si tramutò in sincero affetto.

Come tutti i compagni di classe al termine della terza liceo, anche quelli di mio marito si erano ripromessi di ritrovarsi ogni tanto. Di solito poi ognuno prende la sua strada ed è ben difficile che queste promesse vengano mantenute. Ma nella classe di mio marito c’era una persona speciale, Gianni Franco, il quale l’ultimo giorno di scuola annotò i dati anagrafici e la residenza di ogni compagno, dati che ha aggiornato continuamente ad ogni variare. Così non gli è stato difficile nei primi tempi, alla scadenza di ogni anno convocare tutti per un pranzo o una cena.

Ricordo che con i Franco facemmo un viaggetto a Napoli, con visita a Capri e Pompei.

Sulla strada del ritorno ci fermammo a dormire a Fidenza.

Al mattino riprendemmo la strada, ma dopo un po’ ci ricordammo di aver lasciato i documenti in albergo. Tornammo indietro a ritirarli e ci rimettemmo in cammino a gran velocità. Bisognava arrivare in tempo per il pranzo della classe a Verduno. A quegli appuntamenti era impossibile mancare.

In seguito, l’occasione proseguì non più a cadenza annuale, ma ogni cinque anni; e questo venne convenuto da un comitato di quattro persone: Gianni Franco, Gianni Magliano, Nini Botta e Caterina Cravero, comitato che ebbe origine una notte dopo una cena al Muscatel di Cinzano di Santa Vittoria, dove i quattro compagni si erano ritrovati a cenare.

Credo che allora Caterina Cravero fosse già sposata e separata; io a quell’epoca non l’avevo ancora conosciuta, anche se tutti ne parlavano come di una persona veramente speciale. Dopo la cena i quattro si recarono ad Alba in casa di Gianni Franco e dialogarono tutta la notte fino al mattino, quando dovettero sciogliere l’assemblea perché il fumo delle sigarette dal salottino dove si trovavano, attraverso il soggiorno, tinello e cucina si infilò nella camera da letto dove dormiva Magda che si alzò. Erano le sette del mattino.

Del comitato Gianni Franco si autodesignò Presidente e con tale carica opera tuttora. Il comitato decise che i pranzi avrebbero avuto una cadenza quinquennale.

Il quattro novembre 1967, dopo quindici anni, quando ormai tutti avevano scelto la propria strada e la propria carriera, per il famoso incontro era stato scelto il Castello di Verduno. Io con i due figli maggiori mi ero fermata a La Morra, poiché a quei primi raduni i coniugi erano rigorosamente esclusi. Nel primo pomeriggio arrivarono da me Irma e Guido Bodrato; lui non aveva potuto partecipare al pranzo con i compagni, ma aveva piacere di salutarli e la moglie lo aveva accompagnato.

Fu così che avvisammo a Verduno e poco dopo tutti vennero da noi a fare festa all’amico che forse allora era già deputato. Io ero felice di accogliere in casa tante persone simpatiche; parecchi li conoscevo, alcuni no.

Ma tutti mi sembrarono amici di sempre.

Proprio in quell’occasione conobbi Gianni Magliano, di cui spesso avevo sentito parlare. Mi sembrò un signorotto inglese (non so perché inglese, visto che non ne ho conosciuto neanche uno), un gentiluomo di campagna, galante, premuroso, sempre pronto ad una frase gentile, ad una battuta di spirito, amante di tutte le cose belle e buone che la vita poteva offrirgli. A Guido fece un complimento su di me che mi inorgoglì moltissimo, anche se sicuramente era un complimento esagerato.

Da quella volta in cui Guido Bodrato portò la moglie Irma. il comitato decise di fare partecipare ai raduni i rispettivi coniugi. Così cinque anni dopo ebbi modo di conoscere quasi tutti.

Erano passati venti anni dalla fine della terza liceo.

Devo dire però che, tra un incontro e l’altro, avevamo preso l’abitudine di trovarci, magari a piccoli gruppi. di telefonarci, di invitarci, di partecipare tutti insieme alle gioie e ai dolori che la vita inevitabilmente riservava ad ognuno di noi. Quei ritrovi costituirono anche l’occasione per organizzare i successivi raduni che si tennero negli anni che seguirono.

Pier Giuseppe Morra con la moglie Angela li conobbi di gran sfuggita proprio nell’occasione del raduno di Verduno. Loro non parteciparono al pranzo, ma, poiché ci si doveva incontrare presso il Bar Converso per l’aperitivo, vennero a salutarci lì. Conducevano a quell’epoca una vita grandiosa, sempre in giro per il mondo perché lui era un’industriale e lei lo seguiva dovunque; parlavano perfettamente l’americano e frequentavano stranieri. Ma ciò che colpiva di loro era la straordinaria bellezza. Lui bruno, lei bionda, lineamenti perfetti, sembravano due fotomodelli e certamente, se fossero nati dopo, avrebbero intrapreso proprio questa carriera. I Morra li conobbi meglio poco tempo dopo, una sera in cui fummo invitati a cena alla vigna di Laura Panero, sposata Turco, a Bra. Pier Giuseppe parlò moltissimo, con orgoglio, delle sue tre figlie e non mi stupì affatto di sapere che la prima delle tre faceva l’indossatrice.

L’amicizia con loro divenne profonda durante la malattia di Pier Giuseppe. Avevo saputo che era ricoverato a Torino all’Ospedale ‘Molinette’ e, anche se lo conoscevo poco, pensai di andare a trovano. Gli portai un fiore rosso. Pier Giuseppe ha sempre asserito che la mia visita gli aveva tirato su il morale, aiutandolo ad affrontare l’operazione con una maggiore serenità. Si è poi ripreso egregiamente e, da allora, ci siamo frequentati spesso e volentieri.

Angela era una padrona di casa perfetta, allegra e premurosa. Una sera, i Morra invitarono a cena tutta la classe. Era l’inizio dell’estate, faceva caldo e la tavola era stata apparecchiata all’aperto. Sullo spiazzo prospiciente la casa e attorniato da uno splendido roseto, ci fu servito l’aperitivo.

Ricordo l’allegria di quella sera e le risate che ci hanno accompagnato per tutta la cena.

Ci fu servita una zuppa di piselli, raccolti da Angela nell’orto in fondo al frutteto, che creò in noi una ilarità assolutamente goliardica.

Anche Angela, purtroppo, ci ha già lasciati: serbiamo in ricordo il suo splendido, dolce sorriso.

Con Laura ero ormai diventata amica; quando la conobbi dovetti convenire che quel che si diceva della sua bellezza era effettivamente vero. Alta, bruna, lineamenti perfetti sempre molto elegante. Un giorno, durante un viaggio che facemmo con Laura e Gian in Turchia, un signore in gran segretezza mi si avvicinò e mi chiese se era una principessa indiana.

Laura bruna, Angela bionda, seppi poi che erano molto amiche e credo le più desiderate ragazze di Bra.

Un’estate fummo invitati a cena dal signorotto inglese Gianni Magliano. Tutto era come avevo immaginato. Arrivammo in una bella villa adagiata sulle colline di Bra e circondata da un grande parco, arredata con gusto e con ricche collezioni di oggetti antichi. A fianco la piscina. Ho modo così di conoscere la moglie, una dolce, bella e affabile signora; pare che il compagno l’abbia conosciuta in villeggiatura al mare e se ne sia invaghito follemente convincendola a seguirlo in quel di Bra.

A fianco della piscina, su uno spiazzo, era apparecchiato un lungo tavolo dove ci venne servita una ottima cena innaffiata da ancor più prelibati vini.

Gli anni sono passati velocemente, ognuno di noi assorbito da mille impegni, il lavoro, la famiglia. I ricordi si accavallano nella mia mente e, siccome sono negata per i numeri e molto distratta - cosa che fa rabbrividire mio marito - non so cosa è capitato prima e cosa dopo. Alcuni avvenimenti successi tanti anni fa si sono stampati nella mia mente e mi sembrano avvenuti ieri, altri magari li sento più lontani. Così questi appunti credo possano apparire un po’ confusi.

Penso che conoscendomi mi perdonerete un pochino.

Una volta Guido ed io fummo invitati a Cuneo da Giovanni e Anna Ferrero.

Giovanni era diventato Provveditore agli Studi di quella città e lì si era trasferito con la famiglia. Dopo il pranzo ci fecero fare un giro portandoci a vedere i ‘Ciciu’ di Dronero e la Basilica medioevale di Villar San Costanzo. Io fui entusiasta di conoscere quelle meraviglie a noi così vicine e di cui, mi vergogno a dirlo, non conoscevo neppure l’esistenza.

Mi piacque tanto quel luogo che riuscii a mandarci in gita scolastica tutta la scuola dove insegnavo.

Un giorno ad uno dei soliti pranzi descrivevo a modo mio questi ‘Ciciu’ e dicevo: "Sembrano dei funghi... pare di vedere affiancati padre, madre con i loro figlioletti".

Giovanni, un po’ inorridito, mi interruppe dicendomi: "Scusa, scusa, tu descrivi i ‘Ciciu’ in modo poetico; in realtà sono delle formazioni geologiche dovute alla erosione delle rocce, ecc., ecc.".

Ecco, io sono così, non riesco a ragionare in modo logico, scientifico, tutto riesco a trasformare in poesia.

Un giorno ci telefonano che le due compagne Clara Artusio e Ines Canale, una sposata con un farmacista di Verona e l’altra che da Cherasco si è trasferita a Como, sono venute a Bra. In quattro e quattr’otto la classe si riunisce, si combina una cena al ‘Boccondivino’ per salutare le due compagne ed è forse inutile dire che la serata si svolse in una magnifica allegria.

Passando gli anni siamo diventati così amici, mogli, mariti compagni che ci sembra di fare tutti parte della stessa terza Liceo e non si riesce quasi più a capire chi è compagno di classe e chi coniuge. Ormai credo possiamo definirci compagni acquisiti.

Il pranzo più memorabile fu quello per il trentennale della terza Liceo. Si svolse al ristorante ‘La Cascata’ di Verduno dove avevano riservato un salone per noi.

Quel giorno vennero proprio tutti, anche le compagne sposate e andate a vivere lontano, anche la riservatissima e timidissima compagna Ballaira, che a quel che pare è sempre stato difficile far partecipare alle nostre riunioni. Rita Ballaira, dopo essere stata un’alunna modello, si è laureata a pieni voti e ha dedicato la sua vita alla famiglia e all’insegnamento con grande passione. Qualità che l’ha resa molto stimata dai colleghi, dagli alunni e dai compagni.

C’era anche Ernesto Milano, che non avevo ancora conosciuto. Un tipo piccolino, con un sorriso simpatico; ha vissuto con la famiglia a Torino dove ha svolto il suo lavoro in Comune, ricoprendo un alto incarico nel settore finanziario, ma ha sempre mantenuto i contatti con il suo paese d’origine, Farigliano, e con i suoi compagni di scuola.

La cosa più sorprendente fu che c’erano anche parecchi professori, che evidentemente al tempo della scuola erano giovanissimi, perché neanche allora erano molto più vecchi dei loro alunni.

Era presente anche Nini Botta, che purtroppo mancò poco dopo quell’incontro. La moglie raccolse le tenere e dolci parole scritte dal marito e le fece pubblicare in un bel libro ‘La mia melanconia è di trina’. presentato da Giovanni Arpino. Il libro contiene anche un ricordo di Piero Fraire e della moglie di Nini che chiude l’opera con una pagina che merita di essere qui ricordata e trascritta:

"Gli ultimi scritti risalgono a metà gennaio 1983 e furono dedicati ai suoi compagni di liceo. Si erano tutti incontrati pochi giorni prima al ristorante ‘La Cascata’: la classe al completo con alcuni professori per festeggiare un po’ in ritardo i trent’anni dalla maturità. Fu una giornata magica, emozionante, indimenticabile, quei momenti meravigliosi che la vita a volte ci offre in bilico tra sogno e realtà.

Li ricordo tutti con struggente simpatia: le stesse lacrime, gli stessi sorrisi, lo stesso stupore sul volto del professore, del professionista, del generale, del ministro. Fra tutti il suo, noto e amato. Le sue mani stringevano quelle del compagno di banco e sfioravano il volto della vivace compagna; poi mi compariva vicino, mi accarezzava le spalle, i capelli e mi guardava con infinita dolcezza. Io tacevo sorridendo, capivo il suo timore che io soffrissi per essere esclusa dal suo mondo di allora. Forse la stessa sera del pranzo, al ritorno a casa, fissò questi versi:

Carissimi amici,
carissimi compagni miei,
gli anni sepolti negli archivi
non tornano più: sono perduti
in chissà quale ingorgo di burocratiche
memorie inghiottiti
come i nostri nomi in ordine alfabetico
allineati, e quell‘ordine si è scompaginato
per sempre.
Eppure ancora una volta insieme,
a cercar dietro i capelli grigi,
i solchi che ormai netti segnano i volti,
i sorrisi, i lampi, le timidezze
di allora
a confrontare il nostro cuore di ora
con quello di allora,
a risalire questo abisso di tempo, di rabbie,
di fantasmi, di morti, che ci separa
da allora.

Ed infine, quasi profetica, la traduzione di un Carme di Catullo (XLVI):

Ed allora addio, dolci brigate d ‘amici!
che insieme partiti dalla casa lontana
tante diverse vie accompagnano.

Rita Lidia Accatino".

Caterina Cravero aveva vinto proprio allora un premio letterario con un racconto che naturalmente fu letto a voce alta in quell’occasione tra gli applausi di tutti.

Lo scritto parla proprio della sua classe ed è ambientato trent’anni dopo la maturità, in occasione di un pranzo tra i compagni in un ristorante della collina torinese. Caterina, con melanconica ma simpatica e sorridente narrazione, ricrea l’atmosfera del non dimenticato liceo, di cui all’inizio descrive la composizione ‘... L’aula del Liceo è piccola: i banchi dieci, l’indispensabile per venti ragazzi... ‘ e di noi dice ‘... I ragazzi sono tutti magri, hanno la scriminatura nei capelli, il ciuffo che cade sulla fronte e i calzoni alla zuava... noi ragazze siamo abbastanza carine malgrado i capelli lavati in casa, il grembiule nero e i calzoni di cotone o lana a coste...’ Continua dicendo che, mentre ognuno racconta episodi professionali della propria carriera, la mente di tutti ritorna a! simpatico episodio scolastico avvenuto sui banchi di scuola e che aveva fatto sorridere gli scolari proprio nel momento in cui l’insegnante di latino con voce limpida e chiara scandiva metricamente il famoso verso Virgiliano, divenuto emblema per tutti noi nei tempi che seguirono: ‘Tìtyre, tù patulàe recubàns’ e, poiché detto episodio non poteva che provocare una risata di tutti, finisce il racconto con queste parole: ‘Per un breve e lunghissimo attimo siamo i ragazzi di allora: il boom economico, il matrimonio, i figli, il ‘68, la crisi economica, i problemi finanziari, la violazione dei diritti civili, il dolore che ci ha marcati... tutto è sparito. Si è dileguato in una lunga e irresistibile risata di 30 anni fa’.

Caterina non la conoscevo ancora molto bene, era bella ed elegante anche se non bellissima. Molto intelligente e brillante in compagnia, piacevolissima conversatrice. Una serata con la sua presenza non andava sicuramente a vuoto. Mi aveva dato l’impressione allora di essere sempre un po’ su di giri e di voler stare sempre al centro dell’interesse di ogni compagnia. Una parte faticosissima da recitare.

Al suo opposto ho trovato la sua amica del cuore e compagna di classe Maria Vittoria (da tutti chiamata Ma). Non so quando l’ho vista la prima volta, ma devo dire che io, approfondendo la sua conoscenza, l’ho apprezzata sempre di più. Calma, pacata, semplice, poco appariscente, ci ha invitati tutti dopo il pranzo nella sua casa di Bra. Una casa splendida, tenuta accuratamente. Ma, come suo marito Cheto, sembrano tranquillissimi e sereni e pure fanno tantissime cose e frequentano molta gente. Ma quello che più mi ha colpito di questa compagna è la bontà del cuore. Lei non critica nessuno, accetta le persone per quello che sono e di tutti parla in modo positivo. Questa, per conto mio, è la forza della sua grande serenità.

Il Presidente del comitato, ovvero l’Avvocato Giovanni Battista Franco, è veramente un uomo terribile, che ha una volontà di ferro. Quando decide che qualcuno deve fare una cosa, riesce a convincerlo a farla, insiste finché il malcapitato o fortunato che dir si voglia si piega ai suoi voleri.

Un giorno gli è venuto in mente che la compagna Maria Pia Ciravegna, sposata con Valerio Milano, doveva invitare tutta la classe nella sua casa di campagna a Pamparato.

La poverina non ha avuto scampo. Eravamo talmente tanti ed il tavolo così lungo che aveva dovuto comprare metri di stoffa per fare la tovaglia. Ricordo che il pranzo era stato stabilito per il 9 settembre 1989 e che stranamente faceva freddissimo.

Naturalmente eravamo tutti contenti di questo invito a Pamparato. Maria Pia mi era già stata presentata, ma quel giorno ebbi modo di conoscere meglio sia lei sia la sua famiglia. Maria Pia non è molto alta, ma ha un viso bellissimo, un ovale perfetto incorniciato da riccioli neri, una bella bocca carnosa e occhi scurissimi splendidi. Ci confessa di essere anche stata eletta Miss Liceo e non stento a crederlo. Il marito Valerio ha frequentato lo stesso Liceo, ma non la stessa classe poiché è un po’ più giovane. Lui è alto, un bel fisico atletico; seppi poi che era stato addirittura campione di Pentathlon. Hanno tre figli bellissimi e sono affiatatissimi, una famiglia molto unita1.

Maria Pia, come tutte le donne, si è dedicata all’insegnamento e sicuramente con molto amore e dedizione. Valerio si è rivelato un uomo simpaticissimo, cordiale e intelligente, impossibile non essergli amici.

Il pranzo a Pamparato fu pantagruelico nel vero senso della parola, e quella casa così cordiale ed accogliente ci è rimasta nel cuore.

1Purtroppo, Valerio non è più tra noi. Con la sua bontà e il suo sorriso sarà sempre nel cuore di noi tutti.

Un compagno che non ha mai mancato gli appuntamenti è stato Beppe Alessandria. Spesse volte solo, qualche volta con la moglie. Alessandria è un tipo di poche parole, molto riservato, ha abitato sempre nelle Langhe, svolgendo, unico compagno fra tutti, la professione di insegnante. E’ un intellettuale, uno studioso ed ha scritto un libro di successo: ‘Una madre sola’.

Purtroppo non ho mai conosciuto Giovanni Gallo, se non in fotografia. Abitava a Canale, era uno dei primi della classe ed è mancato pochi anni dopo la fine della terza liceo.

Pure io una volta mi sentii in dovere di invitare i compagni di classe a casa mia. E la cosa mi creò non pochi affanni.

Fu in occasione della nomina di Guido Bodrato a Ministro. Niente meno che Ministro della Pubblica Istruzione.

Mi sembrava giusto festeggiarlo con i suoi compagni di classe. Posso capire gli affanni di Maria Pia a dover preparare per tante persone. Io lavorai una settimana. Mio padre per l’occasione mi regalò un servizio di piatti che aveva ricevuto in dono per il suo matrimonio. Un servizio che comprendeva ben quarantotto piatti piani e una incredibile quantità di piatti da portata. Lo conservo ancora e lo uso qualche volta. I bicchieri li comperai perché non ne possedevo a sufficienza. Dovetti unire due tavoli per ottenerne uno lungo e spostare dei mobili. Non sapendomi regolare, preparai una cena pazzesca. Alla fine regalai un arrosto intero ad una signora che era venuta ad aiutarmi.

Ma furono tutti contenti e Guido Bodrato, nonostante l’alto incarico, lo trovai uguale, semplice, cordiale e riservato come sempre.

L’anno 1988 avvenne un fatto particolare. La preside del glorioso Liceo Classico ‘Gandino’ di Bra, la stimatissima e amatissima ex professoressa di lettere Reviglio, si mette in contatto con il vecchio alunno avvocato Franco. Ha saputo che vogliono sopprimere il classico e accorparlo allo scientifico.

Ma perché vogliono sopprimere quel liceo glorioso e ancora frequentato da tanti ragazzi? I compagni di scuola decidono che devono fare qualche cosa. Gli ex alunni vogliono dare una testimonianza forte del valore di una scuola classica, che tanto ha influito sulla loro formazione. Numerose lettere vengono scambiate tra il presidente del comitato, il compagno Giovanni Ferrero, divenuto provveditore agli studi di Cuneo, e la loro professoressa, in quel momento preside, Reviglio.

Ne trascrivo qui una:

Cuneo, 4 aprile 1988
Caro avvocato Franco, sono d’accordo su tutto, in linea di massima. In particolare:
1) per il tipo di regalo, la preside Reviglio mi disse che si sarebbe accordata direttamente con te; inizialmente mi aveva parlato di alimentatore per i gabinetti scientifici (cifra modesta). Quando ha saputo di quattro milioni circa, ha chiesto tempo per ripensarci: sta facendo un pensierino su qualche collezione di classici.
2) La targa ci sta bene se è piccola, si può metterla dovunque. Ecco un esempio:
Al Liceo Classico G.B. Gandino di Bra
in segno di riconoscenza
La III Liceo del 1952
Bra, 29 maggio 1988

3) La Reviglio non vuole essere citata e non vuole feste. Però, io, un qualcosa di piccolo lo farei. La tua idea della pergamena mi piace: poche parole con la firma di tutti.
Per la consegna nessun accenno nel programma e nemmeno io a lei: potrebbe esserle consegnata, improvvisamente, con cinque minuti in tutto, da chiunque (meglio se da Bodrato, che è stato il suo allievo che, gerarchicamente, è diventato il suo superiore più alto...).
Cordialmente
Giovanni Ferrero

La data della manifestazione è fissata per la Domenica 29 maggio 1988.

Il programma è il seguente:
Ore 10.15: ritrovo nei nuovi locali del liceo Classico G.B. Gandino Via Craveri, Bra;
ore 10.30: trasferimento nel coro della vicina Chiesa di Santa Chiara (gratuitamente concesso) ‘il gioiello del Barocco piemontese’ e qui
1) Introduzione
2) Liceo classico: prospettive
Intervengono: - l’insegnante - l’ingegnere - il generale
3) Scuola di ieri e di oggi: impressioni
Intervengono: - l’insegnante di ieri - l’insegnante di oggi - lo studente di oggi - il consiglio d’istituto
4) Riconoscenza al Liceo G.B. Gandino e alla Preside
Intervengono: - il Provveditore agli Studi - il (già) Ministro della Pubblica Istruzione
5) Intervento e saluto della Preside
Ore 12.30: al ristorante La Cascata pranzo con tutti gli insegnanti di ieri e di oggi.

Saranno presenti gli studenti del Liceo ed i loro insegnanti, che hanno dimostrato molto interesse all’iniziativa.

La manifestazione riuscì splendidamente, ne parlarono i giornali ed è forse inutile aggiungere che di sopprimere quel liceo non se ne parlò più: anzi poco dopo venne trasformato in liceo autonomo.

Prima dell’incontro, l’Avv. Franco ricevette questa bella lettera che qui riporto:

Torino, 19-4-1988
Caro Avvocato Franco, dalla sua lettera del 22.02, vedo che avete intenzione di offrire un dono simbolico al Vostro Liceo entro il corrente anno scolastico, prima che la preside Reviglio lasci il servizio. Non posso che plaudire alla vostra iniziativa e vorrei partecipare ad essa con un contributo: se l’iniziativa si realizza, La prego di comunicarmela tempestivamente, in modo che possa farle avere un piccolo assegno. La prego, però, in ogni caso di non pubblicizzare la cosa e ciò per evidenti motivi: soprattutto perché non vorrei apparire colui che vuole mettersi in mostra a buon mercato (in piemontese si direbbe
‘fè ‘i euv fòra dal cavagnin’) né tantomeno, costringere i colleghi ad adeguarsi.
l mio gesto vuole soprattutto esprimere la mia riconoscenza a quella seconda liceo del 1950/51 che, a distanza di trent’anni, ancora ha ricordato il pivello di allora (che ha saputo dare ben poco) a cui, con la Vostra calda testimonianza di stima e di affetto avete restituito un soffio di giovinezza.
Affettuosamente
Suo Agostino Vinassa

Due grandi Professori: il prof. Vinassa e la Prof.ssa Reviglio.

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