Giancarlo Turco

DA MA E ALTRO

Da Ma

Io arrivai a Bra nell’ottobre del ‘45, e fui collocato nella seconda C, la legione straniera della Media. Il Prof. Sales voleva far imparare l’italiano partendo dal piemontese ed io, che ero cresciuto in montagna dove si parlava un patois stretto, avevo grandi difficoltà ad interpretare il piemontese.

Alla quarta ginnasio arrivammo solo in due, Pier Giuseppe ed io, e gli altri tutti provenivano dalla A maschile o dalla B femminile. Finite le mie difficoltà con la lingua piemontese, feci conoscenza con i nuovi compagni, che già conoscevo di vista, e che sarebbero poi stati i compagni del liceo, quasi tutti. Tra gli altri brillavano i capelli biondi e la dolcezza dello sguardo ceruleo di Ma. Fummo tutti un po’ innamorati di lei, come si è innamorati a tredici, quattordici anni, senza accorgercene. Ma abitava una casa grande, in via Vittorio, con una vasta stanza da pranzo, o salotto, sopra lo studio da avvocato del papà. Non aveva più la mamma, e noi ci trovavamo quasi tutti i giorni da lei, a confrontare i compiti, o a copiarli, verso le cinque e mezza. C’erano molti libri in uno scaffale, le edizioni dei Millenni di Einaudi, ed io guardavo ammirato le rilegature colorate. Venivano Rina e Clara, e G.B. Franco e Nino Magliano e Nini, Pier Giuseppe, qualche volta con Ernesto, che aspettava il treno per Farigliano in casa Morra, Angelo e tanti altri, ed era un modo per trovarci ed anche per guardare i capelli biondi di Ma.

Ogni tanto il papà Giovanni saliva dallo studio per darci un’occhiata.

Lì combinammo le prime festicciole alle vigne. Io avevo un grammofono a manovella rosso e, con l’estate, lo portavo in bici, con qualche disco, per tentare i primi balli. Alle vigne venivano anche la sorellina di Rina, Lucia, e la sua amica Lalla.

Fummo alla vigna di Ma, di Nino, di Rina ed a quella di Lalla. Ma il centro organizzativo fu, per alcuni anni, ‘da Ma’.

Poi venne il Circolo Studentesco, ma questa è un’altra storia.

Giancarlo Turco

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I Ciclisti

Da ragazzi eravamo tutti ciclisti, ciclisti da diporto. Con la bella stagione si tirava fuori la bicicletta, si facevano controllare le camere d’aria, e via. Era il nostro mezzo di trasporto, nessuno aveva la Vespa, che fu sempre un sogno, e si andava in via Cavour, ad aspettare un compagno, poi alla Madonna dei Fiori, in fondo al viale.

Le automobili erano poche, le strade libere, le vie della pianura assolate e invitanti. A volte un vero viaggio, fino a Cavallermaggiore, oppure addirittura alla Madonna della Moretta.

Ma c’era un compagno che la bicicletta la usava ‘per lavoro’, veniva a scuola in bicicletta, da Macellai, ed io fui sempre stupito di come fosse costantemente elegante in giacca e cravatta, mai sudato, nonostante l’ardua pedalata su per la salita degli orti, mentre almeno il ritorno era tutto in discesa.

Lo ebbi per compagno di classe in quarta Ginnasio, quando si riunirono le medie disperse. Era G. B. Franco: lo vedevo come un figlio del vento che veniva da lontano col suo cavallo d’acciaio, una bella bicicletta nera con i freni a bacchetta.

Poi, in prima liceo, comparve un nuovo compagno con bici da corsa e maglione col collo alto: era Guido Bodrato, che arrivava solo da Roreto, ma a velocità più sostenuta grazie al mezzo sofisticato. Aveva un profilo che ricordava un poco quello di Coppi, uno degli eroi del momento, e, durante l’inverno, portava sul volto le goccioline di nebbia rappresa.

Feci un ardito raffronto tra l’elegante bici nera e la veloce freccia d’argento: non ho ancora deciso quale mi piacesse di più; poi, diventato anziano, mi sono comperato una bici nera che adesso uso costantemente per le vie di Torino.

Giancarlo Turco


Il generale-segretario è quello sobrio...

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La terra com'è cattiva...

Non ricordo la prima volta che Ines recitò "...la terra, com’è cattiva..."

Aveva voce un poco roca e come spenta, che prendeva dentro, in anticipo di vent’anni sulle voci che avrebbero segnato i ruggenti anni sessanta nel loro volgere, e quella voce ci aveva suggestionati, come stregati.

Le chiedevamo: "Ines, com’è la terra?" e lei si concedeva raramente, per rendere più preziosa la sua dizione, o perché pensava che fosse per celia. Eppure quella voce, quella voce, ci trasportava in un mondo altro, su un piano di percezione che ci rendeva pensosi, e un po’ tristi.

Con Nini cominciammo ad uscire la sera di straforo, per vagare in una Bra deserta ed addormentata. Per me era facile: abitavo in piazza Carlo Alberto, ad un ultimo piano, e l’alloggio, grande, aveva una porta sempre chiusa. Oliai con cura la serratura, dormivo in una stanzetta remota, e la sera, quando tutti dormivano, sgattaiolavo fuori di casa, giù per le scale e fuori da un portone sempre aperto.

Per Nini c’erano più difficoltà. Abitava sull’Ala, ad un primo piano, ma il retro dava sulla via San Giovanni, ed il davanzale della sua finestra era a soli due metri dal selciato. Allora io uscivo per primo, andavo sotto la sua finestra, gli fischiavo, e lui mi porgeva una sedia, che collocavo contro il muro. Poi la tenevo ferma, e lui, facendo scaletta sullo schienale alto, scendeva. Nascondevamo la sedia, ed al ritorno si faceva all’inverso, e poi io gli porgevo la sedia tenendola alta sul capo.

Uscivamo per sete di libertà incontrollata, avevamo quindici o sedici anni, ed andare in giro nella notte incipiente aveva un significato simbolico.

Recitavamo a mezza voce i versi di Stecchetti, imparati a memoria, oppure salivamo ai Giardini della Rocca, e lì, nella più completa solitudine, potevamo recitare ad alta voce.

A volte andavamo all’Osteria della Stazione, subito dopo il passaggio a livello, dove c’era una giovane figlia, carina, che ci serviva un bicchiere di vino. C’era un avventore, Gomez, dalla pelle olivastra e con i baffetti neri, che aveva fatto la guerra di Spagna da una parte sbagliata, non sapemmo mai quale, ma era comunque una parte sbagliata. E noi pendevamo dalle sue labbra ai racconti di una guerra che non era quella che avevamo conosciuta, e guardavamo la figlia dell’oste che ancheggiava tra i pochi avventori, quasi provocante, coi capelli neri e lunghi sulle spalle. Non fumavamo, e l’aria un po’ greve del locale ci faceva tossire, e vergognare di non essere più grandi.

Così consumavamo le nostre ore di assoluta libertà, ed era un conversare senza fine, e cresceva una sottile malinconia.

Ed una sera Ines perse l’ultimo treno per Cherasco; non ricordo dove eravamo, ma ricordo che dicemmo: "Ti accompagniamo noi stasera a piedi".

Evasi come al solito verso le nove, trovammo Ines, e ci incamminammo alla volta di Cherasco. Lo stradone era deserto, non c’era la luna, e la strada un nastro bianco solo illuminato dalle stelle. Era primavera, forse del ‘50, e c’era buon odore di erba, e cantare di grilli.

Giunti poco prima del ponte della ferrovia, nascondemmo dietro un paracarro una mezza bottiglia di vino, per confortarci al ritorno, e proseguimmo la marcia. Camminavamo senza parlare, poi, passato il Tanaro, su per la salita della strada vecchia.

Arrivati al Cimitero degli Ebrei era notte fonda, forse le dieci e mezza, o le undici, e noi chiedemmo: "Ines, com’è la terra?", e lei, con quella voce un po’ roca e come spenta ci disse "... la terra, com’è cattiva..." e noi ci volgemmo al ritorno e, con l’amica malinconia, fummo di nuovo in tre.

Giancarlo Turco

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La Squadra

Quella Terza Liceo che terminò con l’esame di maturità del ‘52 fu una squadra, ed una squadra fu il corpo docente che per tre anni tentò di dirozzare le nostre menti sì immature, ma pur dotate di una non impercettibile dose di arroganza.

La squadra di docenti avrebbe dovuto avere per referente il preside, ma la situazione non era così limpida: infatti il Liceo Classico di Bra era in quei tempi una sezione staccata dei Liceo ‘Govone’ di Alba il cui Preside, l’aulico Riccomagno, era quindi in contemporanea suo malgrado anche preside di Bra, ed in tre anni lo si vide in questa povera sede distaccata sì e no due volte.

La squadra docenti aveva perciò pilastri dell’attacco la Grosso e la Reviglio, entrambe preparatissime e motivate, che davano lustro all’intero liceo: coprivano in due i ruoli di Italiano, Latino e Greco, il succo di un liceo classico, e lasciarono nelle nostre menti una traccia indelebile.

Ala tornante fu De Mari, romano o sedicente tale, un po’ beffardo e forse spaccone, ma gran simpatico, che si faceva carico di Matematica e Fisica.

Rossano, e poi Pera, ebbero il compito di aprire le nostre testoline alla Filosofia ed alla Storia, con esiti non sempre felici.

Poi la Vallauri, madre e poi mamma e poi ancora madre, si commosse ad illustrarci una Storia dell’Arte fatta di riproduzioni grigiastre ed insipide: le opere d’arte vere le vidi poi da grande, e fu una sorpresa.

La Porro per le Scienze e Don Scaravaglio, preceduto da Don Pomatto, per la Religione, ottennero risultati non significativi. Don Scaravaglio lo rividi poi a Torino alcuni anni dopo e furono ammirata scoperta la sua umanità e carità, che avevamo misconosciuto.

Un ineffabile professore di Scienze, nell’ultimo anno, non lasciò traccia di sé.

La Chiavolini, Matematica, e il Vinassa, italiano, furono meteore; specialmente il Vinassa si rese indimenticabile per le sue doti di simpatia.

Ma il perno di tutto il sistema fu lei, sempre impavida in porta. la bidella Margherita, chiamata a sostituire Preside e Professori, talora ‘dama di ferro’, talaltra ‘dama di burro’, la cui autorità fu sempre riconosciuta e mai posta in discussione, arbitra capricciosa degli altrui destini.

Tale fu la squadra che si giocò quell’indimenticabile rimpianta Terza Liceo.

Giancarlo Turco


Gita scolastica col Preside Cravero (in mezzo) e il prof. Torrengo.

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Gita scolastica: tutti ai piedi (si fa per dire) di Lucilla

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