Giovanni
Ferrero
DE MARI E ALTRO
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De Mari, chi era costui?
Il
lunedì era un giorno difficile. Il prof. De Mari, matematico e fisico, era
anche arbitro di calcio e in quel giorno della settimana doveva completare i referti
arbitrali e spedirli non so a quale organismo. A quel tempo, non esistevano i
marchingegni elettronici di scrittura oggigiorno in uso, motivo per cui
bisognava lavorare con carta e matita, impegnando un bel po’ di tempo.
Succedeva,
pertanto, che, al mattino del lunedì, specie alla prima ora, aprisse il
registro coi nostri nomi, scorresse velocemente l’elenco e poi, con fare di chi
ha ben ponderato la scelta, alzasse gli occhi verso i banchi e: "Canale,
alla lavagna!"
La
vittima designata usciva mestamente dal banco, passava ad occhi bassi davanti
alla cattedra, si accostava alla lavagna, prendeva il gessetto bianco e
rimaneva ansiosa, in attesa dell’immancabile polinomio da svolgere o - peggio -
del problema di geometria da risolvere.
Il
vistoso professore, corpulento e baffuto pur nell’indubbia vigoria fisica, dopo
aver scorso velocemente un suo libro di esercizi con l’aria di cercare quello
più adatto alla povera Ines, cominciava la dettatura: "La somma delle aree
costruite sui lati minori di un romboide...". Poi, s’immergeva nelle sue
carte calcistiche, distolto soltanto dal mormorio finale della ragazza:
"Avrei terminato...".
Il
che avveniva raramente, perché, in genere, l’esercizio del lunedì mattina era
tale per cui difficilmente si trovava soluzione in tempi relativamente brevi.
Eppoi, indaffarato com’era, il terminare troppo presto lo disturbava e lo
metteva di malumore. Era più soddisfatto se riusciva prima lui a porre fine ai
suoi incartamenti, che, per la verità, a volte lo impegnavano per tutta l’ora.
Allora, con fare più giulivo del solito, volgeva lo sguardo alla Ines in
difficoltà: "Mbeh’, cos’ha trovato finora?" e diventava prodigo di
consigli per giungere - da quel momento in poi - velocemente alla soluzione e
passare alla spiegazione della lezione.
La
quale spiegazione era interessante, perché era chiaro nell’esposizione dei
concetti e intelligente nel comprendere se e quanto avessimo afferrato. Aveva,
però, l‘idea, tutta maschilista, che le ragazze fossero poco portate alla
matematica e ripeteva che la prova si poteva fare rivolgendo - a Maria Pia, ad
esempio - una domanda facile facile, del tipo: "Se tre uova costano un
soldo, quanto costa un uovo?" ed attendere la risposta. La quale, secondo
lui - ed, in verità, è così - era facilissima. ma richiedeva un minimo di
intuizione matematica. Il guaio era che Maria Pia (sempre per esempio) non era
in grado di rispondere, preferendo occuparsi della questione omerica e delle
liriche del Petrarca. Però, a fine anno, la promuoveva lo stesso, forse
pensando che era inutile infierire.
Invece,
non transigeva con coloro che reputava in grado di conoscere bene - purché
studiassero - matematica e fisica. Solo che era un po’ confusionario.
Interrogava, spesso, senza far uscire dai banchi, facendo una domanda ad
Ernesto e una a Giovanni, una a Clara e una a Guido o a Lucilla. Poi, a fine
trimestre (i quadrimestri erano di là da venire), riportava i voti sul
registro, fidandosi della sua notevole memoria visiva e uditiva. Purtroppo, per
me, non sempre le cose andarono lisce, tant’è che, pur essendo io un
appassionato di matematica e di fisica e - immodestamente - bravo in tali
materie, un anno mi ritrovai rimandato a settembre. Per niente convinto,
accompagnato da mio padre, chiesi un colloquio col professore, il quale,
candidamente (la sincerità era un’altra sua caratteristica), mi disse: "Ma
tu non ti chiami Milano? Ferrero è quello piccolino nel tuo stesso
banco..."
E
venne alla luce che, almeno in quel caso, la sua memoria visiva aveva fatto
cilecca. Ma non nascose l’errore e non tentò minimamente di giustificarsi: mi
disse solo che - buon per Milano - ormai la cosa era fatta e di non
preoccuparmi a settembre.
E
non mi preoccupai.
Solo
allora compresi perché il mio compagno avesse fatto salti di gioia nel non
vedersi rimandato di matematica, evento da lui previsto, atteso e temuto. Era
chiaro nell’esposizione, come dissi, ma non amava ripetersi; di conseguenza, se
si perdeva il filo di un suo concetto, era un guaio, perché non tornava mai su
cose già spiegate. Inoltre, se reputava che l’allievo fosse in grado di
comprendere quanto aveva detto, attribuiva immancabilmente gli errori a
pigrizia nello studiare e nello stare attenti. Allora, immancabilmente, aveva
soltanto due soluzioni: o riteneva l’allievo negato per la matematica (Pia,
sempre e solo ad esempio), e allora lo promuoveva lo stesso; o lo riteneva
capace ma svogliato, e allora lo rimandava.
Il
che, pur con la simpatia che personalmente emanava, non era né bello né
istruttivo.
Giovanni Ferrero
Guido II in convitto.
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In viaggio con Nini
Era di un umorismo
raffinatissimo, ma di difficile comprensione.
Era Nini Botta, unico nel
suo genere. Parlava sempre con un tono di voce moderato e la sua erre blesa
infondeva amicizia e soggezione. Al di là dei ricordi comuni a tutti (le sue
battute in classe, la sua bottiglia nello sgabuzzino, la sua corsa per risalire
sulla cremagliera del Sacro Monte di Varallo, dopo esserne sceso, mentre era in
moto, per raccogliere non so che cosa), ne ho due personalissimi.
Il primo è l’attrazione
che provava per il mio quaderno degli appunti di filosofia. Se, a mia insaputa,
riusciva ad impadronirsene, me lo ritrovavo, improvvisamente, con i suoi
disegnini e le sue battute, a volte anche grasse.
Il secondo ricordo
personale è quello legato ad un viaggio in Svizzera, Germania (Est ed Ovest),
Danimarca, Svezia e Norvegia, compiuto sulla sua vecchia Fiat 600.
Ciò avvenne dieci anni dopo
la maturità, ossia, nel 1962, per celebrare il decennale. Ci alternavamo alla
guida e, ovviamente, chi non guidava, svolgeva le funzioni di navigatore,
indicando - cartina alla mano - la via al pilota. Solo che Nini non amava le
carte geografiche e tanto meno amava fare il navigatore. Eppoi, nei viaggi era
fatalista, non gli importava dove si andasse, purché si trattasse di un posto
nuovo.
E’ rimasta memorabile la
sua frase, quando, un giorno, essendo io alla guida e pressandolo perché mi
indicasse la direzione ad ogni bivio (era un’area con molte strade
intersecantisi), buttò tranquillamente la cartina sul sedile posteriore e,
accendendosi una sigaretta, mi rispose in dialetto: "Va dove
vuoi...". Inutile dire che io, precisino e pignolino, mi arrabbiai
moltissimo, senza che lui si scomponesse più che tanto e smettesse di pensare
alle cose sue.
Era anche abbastanza
distratto, tant’è che, un giorno, passeggiando a piedi per una città, più di
una volta lo persi. Lui seguiva la sua strada (e i suoi pensieri) e basta; non
vedeva la gente attorno a lui. Se decideva di fermarsi davanti ad una vetrina o
ad un cartellone pubblicitario, lo faceva senza curarsi di darmi una voce per
evitare che me ne accorgessi soltanto dopo dieci passi e non lo ritrovassi più
tra la folla. Lo facevo sempre camminare davanti a me, così il pericolo era
evitato, ma non sempre ciò avveniva: allora, erano guai. Un giorno,
amichevolmente arrabbiato, gli dissi di darmi mano e lui mi chiese per chi
l’avevo preso...
In quel viaggio, scopersi
il suo amore per la poesia, ma non solo per la poesia. Gli piaceva parlare
sempre di problemi filosofici o politici, ma gli piaceva anche andare la sera
in quelle birrerie dove, tra una birra e un caffè, si proiettavano filmetti
che, allora, erano osé ed ora sarebbero classificati ‘per bambini accompagnati
da adulti’.
Una sera, mi pare ad
Amburgo, prendemmo la birra in uno di questi locali, dove, fra rumori vari,
c’era uno schermo su cui scorrevano le immagini di ragazze che nuotavano in
costume succinto, il tutto della durata di dieci minuti, ripetuti all’infinito.
Verso le 23, stavamo
rientrando alla pensione, quando Nini, non ancora soddisfatto, propose di
andare in un altro locale. Io non ce la facevo più e allora andò solo.
L’aspetto comico - ora, a raccontarlo, ma, allora, mi metteva a disagio - era
che, facendo un pezzo di strada assieme, lui alla ricerca di un locale
soddisfacente ed io verso l’albergo, si fermava ad ogni night per informarsi
dalla maschera su che cosa si sarebbe visto nello spettacolo. Io mi vergognavo
un po’ e fingevo di non conoscerlo; lui, imperterrito, avendo poca
dimestichezza col tedesco, si spiegava a gesti, facendo il segno divenuto poi
simbolo delle femministe.
Finalmente, trovò un locale di suo gusto, ma, per
l’entrata, era prescritta la cravatta, che io avevo e lui no. Naturalmente,
facemmo il cambio in mezzo alla strada. Dopo l’una, mi svegliò rientrando in albergo
e si mise a leggere. Non solo, ma pretese che ascoltassi la sua lettura di
alcune poesie di Ossi di seppia di Montale.
Mi dispiace, ora, che
fosse rimasto deluso della mia osservazione che, a quell’ora, Montale mi
lasciava del tutto indifferente.
Però, la stoffa del poeta
- anche se da me non ancora conosciuta - in lui c’era. E robustissirna.
Giovanni Ferrero
Nini Botta a Oslo con la
sua vecchia 600.