Guido Bodrato

LA NOSTRA LUNGA STRADA

Nell’autunno del ‘49 mio padre, col primo concorso per le condotte mediche che si era svolto nel dopoguerra, si è trasferito da Monteu a Roreto di Cherasco, perché io ed i mie fratelli fossimo più vicini alle scuole medie superiori.

Così ho frequentato il liceo di Bra, allora sezione staccata del liceo classico di Alba, dove avevo concluso il ginnasio.

Ogni giorno raggiungevo Bra in bicicletta, con mia sorella Marina. Non ero l’unico ad usare la bici; per Battista, che abitava a Pollenzo, la strada era in salita. Per me quei tre chilometri di pianura diventavano difficili solo d’inverno. Ernesto per frequentare il liceo partiva ogni mattina in treno da Farigliano, alzandosi prima del canto del gallo. Tuttavia i miei compagni notavano soprattutto la mia ‘Benotto’ azzurra e bianca, da corsa. Forse anche il ricordo dello zio Aldo, che raccontava di aver gareggiato con Girardengo, mi aveva spinto a tentare l’agonismo. Ma ci ho rinunciato dopo aver concluso la ‘Coppa Sicurtà’ in coda al gruppo e così sfinito che, dopo quell’ultima corsa domenicale, mia madre mi ha svegliato all’ora del pranzo del lunedì. Da allora la mia attività sportiva si è limitata alle gare scolastiche, alle corse campestri che mi permettevano di mettere a frutto gli allenamenti fatti pedalando per le strade delle Langhe.

E così, con le corse campestri, il Liceo Classico di Alba (e Bra) ha vinto la Targa del Provveditorato di Cuneo: primo I’ albese Paganelli (il più giovane) ed io quarto. In quegli anni Bra era sede di una fiorente società di atletica; alcuni nostri compagni (Bravi e Milano) si conquistarono notorietà nazionale gareggiando per i colori della ‘Lorenzoni’. E Piazza d’Armi per una stagione diventò una delle nostre mete preferite.

Quello era anche il tempo delle manifestazioni studentesche per ‘Trieste italiana’. Una mattina, trascinati dalle notizie della radio e dei giornali, costringemmo i ragazzi delle scuole medie e degli istituti professionali ad unirsi a noi in un corteo che attraversò la città per raggiungere i giardini pubblici e concludersi attorno al monumento ai Caduti. Niente che ricordasse gli scontri di Piazza Italia; e neppure che faccia pensare oggi alle contestazioni studentesche del ‘68. Tuttavia, bisognava lanciare un messaggio. Fui spinto sul monumento da Nini Botta e da Battista Franco, che era stato l’organizzatore di quella manifestazione, e fui costretto a parlare. E stato il mio primo discorso, che ho concluso recitando le ultime strofe dei Sepolcri: "‘E tu onore di pianto Ettore avrai,
ove fia santo e lagrimato il sangue
per la patria versato; e finché il Sole
risplenderà su le sciagure umane".

Molti applausi per Ugo Foscolo.

Per noi era straordinario passare qualche ora del pomeriggio al bar della Stazione, sorseggiando un gin fizz e leggendo Spoon River con Gian Turco... Mi appassionava discutere con Nini Botta dell’ambiguo rapporto che lega ed oppone libertà e giustizia, cercando di capire cosa capitava in Parlamento e perché la gente impediva ad Almirante di parlare nelle piazze di Bra e di Cuneo.

Una sera d’estate passata alla Zizzola, ad ascoltare Angelo Abbate Daga che suonava il piano od a ballare con Maria Pia, Caterina e le loro amiche delle magistrali, era come l’inizio di un’avventura.

Un giorno i giornali pubblicarono una notizia che per una settimana riuscì a sconvolgere la tranquilla vita del liceo. Un nostro compagno, più giovane di noi, aveva fatto una scoperta sensazionale: era riuscito a fotografare alcuni personaggi del passato, intercettando e ricomponendo in un’immagine gli impulsi emessi dai loro corpi secoli prima. Ne parlò anche un rotocalco nazionale e si diffuse la voce che questo studente prodigio (figlio di un farmacista) fosse scomparso per sottrarsi agli agenti del KGB o della CIA Ma, secondo i giornali, noi compagni del liceo non credevamo a queste voci, poiché conoscevamo Ito e sapevamo che questa non era la sua prima ‘invenzione’.

Tuttavia, scoperto il potere della stampa, ci gettammo nell’avventura di un giornaletto senza neppure avere un ciclostile a disposizione. 'La meninge’ (ironico omaggio all’intelligenza) uscì due volte in tre mesi, per la straordinaria disponibilità di Caterina Cravero che si trasformò in dattilografa ed in edicolante. Da allora ho coltivato il sogno del giornalismo, con grande delusione di mio padre, che sognava invece che io facessi il medico.

Alla vigilia della terza liceo, mio padre trasferì la famiglia a Torino, questa volta per avvicinare i figli all’Università. Ed io, che ero il secondo di sette fratelli, per concludere gli studi senza gravare sul bilancio della famiglia, decisi di fare l’assistente nel collegio di Bra. Dovevo occuparmi di venti ragazzi dell’avviamento professionale (non c’era ancora la scuola media unica), dormire con loro nella camerata e controllare che studiassero (o fingessero di studiare). Anche Giovanni Ferrero era assistente di una classe più grande della mia.

Eppure trovavamo il tempo per giocare al calcio durante gli intervalli e per fare i segretari galanti di alcuni nostri amici impegnati in una fitta corrispondenza con le loro innamorate. Giovanni scriveva per una ragazza delle magistrali che si era innamorata di un nostro compagno, al quale io suggerivo le risposte. Siamo stati, così, registi e sceneggiatori di una romantica vicenda epistolare, che si è esaurita con gli esami di maturità.

Il mio compagno di banco, P. G. Morra, dedicava quasi tutto il suo tempo a tormentare Angelo, che sedeva nel primo banco ed era esposto più di tutti ai richiami dei professori. Io e Nini, che era seduto dietro di noi con Rosati, mettevamo in versi tutto ciò che capitava. E gareggiavamo nelle prove scritte di italiano.

A conclusione di una di queste ‘disfide’, la professoressa Reviglio ha scritto sul foglio del mio tema: ‘C’è chi ha sensibilità, e chi no’, lasciandomi sconfortato e senza voto. Avevo sostenuto, per sfida, che la poesia di Carducci era più bella di quella di Leopardi.

Ricordo anche l’immagine di altri professori, dotati di una umanità che esaltava la loro cultura. Oltre alla Reviglio, la Grosso e la Vallauri; e poi Pera, Vinassa, De Mari. Ho incontrato Vinassa, professore di italiano nell’anno della maturità, trent’ anni dopo, a Torino, quando ho partecipato come ministro dell’istruzione ad un incontro organizzato da un istituto di cui era Preside.

Poi l’Università ci ha diviso. Sono diventate più rare le occasioni di incontro anche tra chi ha frequentato la stessa facoltà.

Ma quella spensierata amicizia è rimasta un legame che Franco e Magliano hanno avuto il merito di rinnovare ogni anno. Non siamo più diciannovenni, ma, quando ci incontriamo, anche se abbiamo fatto scelte molto diverse, continuiamo a pensarla nello stesso modo, come se il tempo si fosse fermato agli anni del liceo.

Guido Bodrato

La nostra classe Terza Liceo.

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