RITA RACCONTA GIANFRANCO

Voce fuori campo

Non si potevano chiudere queste pagine senza un pensiero rivolto a Nini per la penna di Rita, di colei che più d’ogni altro gli è stata vicina nella vita, l’ha conosciuto e amato.

Nini, che io ricordo come il ragazzo più tenero della classe.

Col suo fare si procurava l’amicizia di tutti: di quali ingredienti era composto quel ‘suo fare’? Di cordiali canzonature, di diligenti punzecchiate, di sorrisi agro-dolci.

Nini era serio con le persone serie (con me, per esempio?), ma pizzicava le frivole: quelle, vale a dire, che prestavano troppa attenzione alle lezioni della Cattedra; o le disciplinate che, per naturale disposizione, tendevano a edificare con il loro esempio i propri compagni; o le troppo scaltrite e, infine, quelle che si astraevano dalle vicende della classe, dedicandosi alla considerazione degli astri.

Egli stuzzicava anche coloro - fra il gentil sesso - che si esibissero in procacità sensuali senza conseguire sensazionali risultati.

Uno degli aspetti più profondi del suo carattere, quello romantico, stentò durante il triennio a manifestarsi compiutamente: le stesse poesie che Nini dedicava all’amore platonico erano infatti interpretate da noi, suoi barbari colleghi, come saggi di sottile erotismo.

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RITA RACCONTA GIANFRANCO
di Rita Accatino Botta

Parlare ancora di Gianfranco è molto difficile; dopo 17 anni dalla sua morte mi pare che tutto sia già stato detto, pensato e scritto e se anche il ricordo non si è mai affievolito o appannato nulla forse è più possibile dire. La difficoltà non è di trovare l’equilibrio fra il ricordo, le sensazioni e la parola scritta, ciò è ormai qualcosa che fa per sempre parte della mia vita, ma arduo è trovare parole e vicende nuove. Non resta che cercare ancora un ricordo, una sensazione non scritta o narrata.

Ebbene, la storia più semplice, più comune, più banale: le prime ore di matrimonio.

Ci sposammo il 19 ottobre del 1967: era una giornata fredda e grigia, la mia chiesa a Torino era una brutta costruzione di periferia, gli addobbi erano pochi e gli invitati anche; il fotografo era nervoso perché sia io sia Gianfranco eravamo due sposi indisciplinati, poco inclini a farci riprendere. lo ero poco soddisfatta del mio vestito bianco e del velo, perché avrei voluto sposarmi in abito sportivo, ma non era stato possibile: le mamme furono inflessibili. Docilmente Gianfranco ed io, seppur sessantottini ‘ante litteram’, ci eravamo piegati alla tradizione: pranzo, foto, filmino, confetti, biglietti e quant’altro. In quattro mesi ci eravamo innamorati e avevamo deciso di sposarci, solo questo contava, ma, buoni figli di una generazione ancora ubbidiente, avevamo accettato, e poi forse condiviso, una certa teatralità.

Difficile narrare quella giornata vissuta quasi con incredulità, come in sogno, talvolta con distacco, incapaci di credere che saremmo vissuti per sempre insieme. Il mio volto nelle fotografie è allegro, sereno e apparentemente normale, ma Gianfranco era pallido e faticava quasi a respirare; le emozioni parevano accentuare la sua magrezza e il volto sottile assumeva il grigiore della pietra dandomi, anche negli anni successivi, la sensazione di una fragilità simile al cristallo. Ma i suoi occhi erano quelli dei momenti più dolci e lasciavano apparire ogni tanto quasi un guizzo d’ironia per l’evento che si stava svolgendo. Ricordo solo alcune parole della predica del giovane prete: "dividere non solo le gioie, ma anche le sofferenze" e su quest’ultime si soffermò un po’ troppo; due sposi innamorati non riescono assolutamente a recepire un discorso sulla sofferenza il giorno del loro matrimonio.

Poi al ristorante chissà cosa mangiammo. Rischiammo di perdere il treno per Roma e durante il viaggio Gianfranco taceva e non mi guardava; iniziavo a sperimentare il suo carattere spigoloso ogniqualvolta un evento lo emozionava. Ad Asti vi fu un guasto e giungemmo a Roma a notte fonda con due ore di ritardo.

La mattina dopo Roma ci regalò una meravigliosa giornata quasi estiva, così diversa dal grigiore torinese; a mezzogiorno eravamo in partenza da Fiumicino per Atene: era la prima volta che viaggiavamo in aereo e al momento del decollo avevamo un po’ d’affanno, ma lo spettacolo del mare e delle nuvole rosate sotto di noi e poi i contorni e il colore della penisola salentina ci fecero dimenticare l’agitazione iniziale. Quando fummo sul mar Ionio, entrammo in uno spaventoso temporale e l’aereo rollava e beccheggiava come su un mare in tempesta. Fui presa dal panico e. seppur in silenzio, mi raccomandavo a Dio perché non volevo proprio morire in viaggio di nozze. Gianfranco esibiva una serafica tranquillità e leggeva attentamente il giornale; che strano uomo avevo sposato: ero convinta che anche lui dovesse tremare come me. Appoggiai la testa sul suo braccio per cercare un po’ di conforto e mi accorsi che era rigido e immobile con il giornale aperto, ma rovesciato!

Piccola storia, banale e semplice, ma che nei miei ricordi talvolta ripercorro insieme ad infiniti altri momenti della nostra vita in comune.

Quando più intensa è la nostalgia su di lui, scrivo delle brutte poesie che però fanno riaffiorare sensazioni e pensieri che mi riempiono di rimpianto, nostalgia, tenerezza, ma anche serenità. Sfogliando fra le carte ho trovato questi pochi versi che mi sembrano i più belli (o forse i meno brutti) scritti il 10 maggio del 1997.

A Gianfranco

Ti ho sempre ascoltato,
sorpresa
di aver la tua voce, i tuoi sguardi,
le mani, i tuoi occhi, i pensieri.
Stendevo il corpo assonnato,
cullato
nel dolce tepore del letto,
le tue braccia un guscio sicuro.
Poi dopo il silenzio per sempre
mentre
ancora ti cerco nelle primule gialle,
nel vento che mi sfiora le gote.
Sul ricordo e dolori,
velari amari
ti coprono il dolce e mesto sorriso;
sono sola sui bordo del fiume.
Ma l’ultimo buio non temo,
meno
dovrò valicare,
perché le tue braccia
verranno come un guscio sicuro.

Qui di seguito vi invio un altro pezzo, scritto in parte da me e in parte da Gianfranco, che vi portai qualche anno fa al pranzo a casa di Mavi e Cheto e che poi inviai a tutti i compagni per posta.

A una donna che non esiste

Un giorno tu verrai a sciogliere
le trame vuote dei miei tormenti;
tu potrai dare il mite aspetto della vita
alle mie fantasie consunte,
che ora intorno a me si assiepano
nella stanca abitudine di camminare da solo.
Giungerai a spalancare con il tuo sorriso
le regioni ostinatamente negate
di cui sento con angoscia melanconica
il profumo di cose sconosciute e buone.
E quando mi sarai vicina,
allora più non avrò paura di sconforti,
e mi basterà di attendere
la difficile vicinanza di Dio.
Ma tu verrai, come tu suoli in sogno,
e con il risveglio non vedrò che l’amarezza
perduta di non incontrarti mai.
(29.11.1954)

Per raggiungere '...il profumo di cose sconosciute e buone...' dovranno ancora passare tante e tante pagine del diario del giovane studente liceale, che in una nebbiosa sera d’autunno scriveva versi alla donna dei suoi sogni: pagine di racconti, di rime, di solitudine, di tante letture.

Da quelle pagine escono ancora infinite figure: Roberto, Guido, Battista, Carlo, Rina, Ines, Vittoria, Anna, Rita, Carmen e via.., amici, amiche e ad ogni primavera giovani ragazze amate, sognate, desiderate.

Liceo, università, primi anni da avvocato e da insegnante e gli scritti continuano fitti di frasi, di versi, ogni giorno con la sua data.

Su un cammino diverso, in altre città, una ragazza percorreva una strada quasi simile: ragioneria, università, impiego e infine insegnamento: altri sogni, altre amiche, altri amori veri o sognati: Marta, Grazia, Franca, Roberto, Alberto, Piero, Marcello e via...

Poi, nella primavera del 1967, l’incontro che farà scrivere a Gianfranco queste meravigliose parole:

Cara Rita,

raccontarti ancora quello che mi sta succedendo nomi è né gentile né interessante. Ma ci vediamo così poco e così di rado (almeno per quello che desidererei) che poi il riuscire a parlarti non è sempre facile, se non quando ti tengo fra le braccia, ma allora le parole diventano superflue. Ma allora questo scriverti non mi sembra essere che la continuazione di un discorso più lungo, un colloquio che non finisce mai, perché sei entrata così a fondo in me, nelle abitudini, nei modi di sentire, che ti ritrovo dappertutto, sempre presente e ogni cosa, ogni pensiero deve essere discusso con te, confrontato e... (parola incomprensibile).

Hai aderito così bene, così facilmente alla mia vita (parlo sempre della Rita che resta anche quando tu te ne vai) che sembri averne fatto sempre parte: con i gatti, i libri, le vacanze degli anni scorsi, gli esami, le primavere passate, ecc...

Così mi stupisco di non trovarti citata già nelle brutte poesie che scrivevo a vent‘anni o di non scoprire una tua fotografia fra quelle vecchie della scuola; sei ormai di casa insomma: una tenerezza profonda... (parola incomprensibile) alle cose che si sono sempre amate, alle emozioni che hanno lasciato tracce più nette e che poi si è sempre cercato di ritrovare. E infine sei una cosa completamente nuova, del tutto diversa da quello che è stato prima: difficile, sconosciuta, misteriosa talvolta tormentosa.

Così vivo un po‘ da sonnambulo:... (parole incomprensibili), la scuola, le riunioni, il lavoro e qualche volta la Rita in carne ed ossa (bellissima, tenera, gli occhi azzurri, gli occhiali neri, il vestito blu, la malizia, l’allegria); e poi la seconda vita, con l’altra Rita un po’ sognata dietro ad ogni pensiero, come un sottofondo in cui nascondersi, per delle distrazioni lunghissime, per inventare del/e storie piene di vicende.

E infine sono felice di costatare che il mondo è sconfinato, che ci sono migliaia di posti in cui non siamo ancora stati (e in cui quindi potremo andare), milioni di argomenti di cui non abbiamo ancora parlato, delle albe che non abbiamo ancora visto, dei tramonti che potremo vivere: che c’è un futuro enorme ancora tutto da inventare e che si potrà mettere insieme in due, e che insomma nonostante l’incoerenza di questa lettera tu, cara Rita, sei proprio la mia Rita più cara.

Botta

Il sogno antico è realtà per tutti e due e diverrà un legame intenso, completo e talvolta profondamente sofferto. Passerà nuovamente un numero di anni uguale e la morte imporrà la separazione: ma il cammino in comune è ormai segnato e continua...

Rita è rimasta e raccoglierà in un libro: ‘La mia melanconia è di trina’ ciò che di quei diari è la parte migliore e che farà dire a Giovanni Arpino nella presentazione: 'la tensione che vibrò in lui rimane...'.

Altri anni passeranno pari ai precedenti (una vita ormai) e Rita oggi ha cercato nuovamente fra quelle pagine e ha trovato: 'A una donna che non esiste'” scritta 44 anni fa e offre questo accavallarsi di emozioni al suo Gian Franco lontano e ai suoi compagni della III Liceo.

Rita Accatino Botta

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