MILANO DORME

di Rina Cravero

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L’aula del liceo è piccola: i banchi, dieci, l’indispensabile per venti ragazzi, sono di legno vecchio, pesante, tutto inciso di disegni, di nomi, di date, testimonianze di innumerevoli generazioni passate; in mezzo ad ogni banco c’è ancora il buco per il calamaio e le scanalature per le penne. Le pareti, grigiastre, sono vuote: c’è soltanto sulla parete di fondo una carta geografica d’Europa con i confini fermi alla 1^ guerra mondiale; la parte colorata in rosa dell’impero asburgico è molto grande; accanto alla cattedra una tavola appesa al muro con un cordino di spago rappresenta lo scheletro umano; dietro alla lavagna sbrecciata in un piccolo armadio a vetri, perennemente chiuso a chiave, alcune provette colme a metà di liquido colorato sono piene di polvere, come polveroso è un gufo impagliato che per noi ragazzi è il ‘lare’, lo spirito protettore della classe.

Dalle piccole finestre aperte entra nell’aula lo schiamazzo delle galline (in una piazzetta vicina c’è il mercato del pollame), lo scampanellìo delle biciclette, le chiacchiere delle donne; nell’aria c’è odore di frittata, di uova sode, di mele, perché molti miei compagni sono pendolari e, nella borsa, accanto ai lirici greci e alla letteratura del Rostagni, hanno il pacchetto con il pranzo.

I ragazzi sono tutti magri, hanno la scriminatura nei capelli, il ciuffo che cade sulla fronte e i calzoni alla zuava; noi ragazze siamo abbastanza carine malgrado i capelli lavati in casa, il grembiule nero e i calzini di cotone o di lana a coste.

L’aria è tiepida e noi, come al solito, abbiamo voglia di scherzare e di ridere. La Reviglio, l’insegnante bionda e severa di latino e greco, parla della poesia virgiliana; il suo parlare è sciolto ed elegante, ma solo qualche tempo dopo scopriremo quanto sia stato anche suadente, perché tutti abbiamo amato e continuiamo ad amare il mondo classico.

Quel mattino invece l’attenzione è solo apparente: gli sguardi s’incontrano, le mani lievemente mosse si scambiano messaggi: cerchiamo lo scherzo, l’occasione per ridere. Solo Ernesto Milano (mi è rimasta l’abitudine liceale di chiamare i miei compagni con il cognome sempre dopo al nome) nel primo banco é immobile e silenzioso; con la mano destra tiene una matita rossa che sembra annotare qualcosa sul libro aperto; il gomito sinistro è appoggiato sul banco, quasi sul bordo e il braccio sostiene la fronte pensosamente reclinata sulla mano aperta che pare proteggere gli occhi dalla luce per una maggior concentrazione: Ernesto Milano dorme. Profondamente e silenziosamente dorme il sonno di un ragazzo di 17 anni che tutte le mattine si alza alle cinque per venire a scuola.

Il compagno di banco Giovanni Ferrero, alla sua sinistra, segnala alla classe l’avvenimento; è un attimo: dagli ultimi banchi, attraverso Gian Turco e Guido Bodrato, arriva il segnale. Tutti guardiamo la testa leggermente piegata di Ernesto Milano, la mano di Ferrero vicina al gomito del compagno pronta per il colpetto... e, mentre la voce limpida e chiara della Reviglio scandisce metricamente il verso virgiliano ‘Tìtyre, tù patulàe recubàns...’ pac!, la testa di Milano non più sorretta dal braccio cade di peso sul legno del vecchio banco.

- "Chi è stato a fare questo baccano?"

Severa e inquisitrice l’insegnante si rivolge alla classe. Rosso in viso, con un bernoccolo già visibile sulla fronte Ernesto Milano si alza:

- "Mi scusi, ero così assorto nella lettura che mi è scivolato il braccio: non succederà più".

La Reviglio china sul testo riprende a leggere "... recubàns sub tègmine fàgi"; la classe è silenziosa, ma gli occhi sono lucidi, i visi si contraggono, le spalle sussultano: non si potrà ridere apertamente se non alla fine dell’ora.

Da allora, per alcuni anni ancora, quel dolce verso virgiliano fu per noi come una formula magica; portava racchiuse in sé la sicurezza di un’amicizia nata e cresciuta sui banchi di scuola, la voglia di ridere e di scherzare, la baldanza di una classe liceale che viveva la propria giovinezza. Solo apparentemente gli anni dell’Università ci avevano separati.

C’incontravamo sul treno delle 7,15 che ci portava al mattino a Torino. Viaggiavamo tutti in 3^ classe: nelle borse c’erano oltre ai libri, l’abbonamento ferroviario, pochi spiccioli, le solite mele e le uova sode. Erano i primi anni del boom economico, ma noi non l’avvertivamo: per andare al cinema o a ballare al Castellino rinunciavamo al cappuccino nella latteria di Via Cavour; portavamo berretti, e maglioncini fatti in casa e nessuno era ‘fuori corso’. Una volta risparmiammo per una settimana per andare da Porta Nuova all’Università su una vecchia carrozza a cavalli traballante e sgangherata.

C’incontravamo sotto i vecchi portici di Via Po dove c’erano le bancarelle dei libri usati e delle caldarroste: Torino manteneva ancora quell’aria riservata e leggermente snob che aveva avuto all’inizio del secolo. Nei caffè di Piazza San Carlo, al pomeriggio, le signore con assurdi cappellini e deliziosi abiti a pois, sorseggiavano la cioccolata cinguettando nel cantilenante dialetto torinese.

C’incontravamo alla mensa dell’Università, vicino al Valentino, frequentata dai ragazzi del Politecnico che avevano la borsa di studio e già al IV anno erano ‘prenotati’ dalle industrie.

Noi, della ‘nostra’ terza liceo, eravamo sparsi un po’ in tutte le facoltà. Ma sullo scalone che nei giorni d’esame si doveva salire iniziando con il piede sinistro, succedeva, proprio in uno di quei giorni, quando soli e impauriti non si aveva il coraggio di salire, di sentire alle spalle "Tìtyre, tù patulàe recubàns..."; era uno dei ‘nostri’ ragazzi, con il ciuffo spettinato, lo sguardo intelligente e canzonatorio, i libri di Diritto Costituzionale sotto il braccio, che rideva appoggiato ad una colonna. Allora di colpo, passavano la paura, l’incertezza, la voglia di scappare. Ci si guardava negli occhi e la risata saliva sotto le antiche volte.

C’incontravamo nelle lunghe sere d’estate, nelle ‘vigne’, dove si andava per ballare con la musica di soli due dischi gracchianti sul vecchio grammofono a tromba, per fare merenda e per discutere. Soprattutto per discutere. Sicuri del nostro piccolo e grande bagaglio culturale cercavamo soluzioni agli eterni problemi dell’uomo: parlavamo di Hegel, di Bergson, di Proust, di Dio, della morte, dell’infinito. Intorno a noi la campagna profumava di sottile melanconia e, per un attimo, nel silenzio dei grilli e delle cicale, intuivamo il travaglio dell’esistenza. "Tìtyre, tù patulàe recubàns..." L’incanto era rotto: l’involontaria angoscia che si era infiltrata nei nostri animi impauriti e all’improvviso soli, si dissolveva nella gaia e complice risata.

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Poi ci siamo persi. Qualche biglietto di auguri per le circostanze felici; qualche frase di condoglianze per gli eventi dolorosi.

Ci siamo ritrovati, tutti insieme, poco tempo fa: sono passati trent’anni. Noi ragazze siamo ancora graziose con l’aiuto del trucco, dei vestiti eleganti, dei gioielli sobri; i ragazzi hanno i capelli grigi, non sono più magri e portano con disinvoltura gli abiti scuri e i gemelli ai polsini. Il ristorante sulla collina torinese è raffinato; nel grande camino brucia del legno profumato e i tappeti attutiscono il rumore dei passi. Parliamo di tutto un po’: Gian Turco parla dei suoi viaggi nei paesi più strani per cercare reperti fossili; Gianfranco Botta parla con distacco dei suoi alunni; Battista Franco parla di una causa in Cassazione. Noi donne parliamo di abiti, di vacanze, di mariti. Nessuno parla dei figli, perché a due di noi sono morti i propri ragazzi di 17 anni.

Cerchiamo argomenti divertenti, ma non riusciamo a ridere: siamo stanchi, lontani gli uni dagli altri, diversi. Forse è stato un errore ritrovarci. Ognuno di noi nasconde sotto le parole eleganti ed educate il peso di avvenimenti dolorosamente ed individualmente vissuti: ‘sente’ che gli altri sono assenti, non possono capire; le gioie e i dolori non si allargano più ad un’intera classe: rimangono dentro, nell’impossibilità di fare e di essere partecipi.

Le voci si abbassano sempre più, si chiacchiera con il vicino di tavola, si cerca di apparire dispiaciuti che il pranzo stia per terminare; nei piatti il dolce di panna e meringa viene appena toccato.

Ma ad un tratto, attraverso gli stessi sguardi di 30 anni fa, arriva il messaggio: Ernesto Milano dorme; profondamente, silenziosamente dorme con la fronte reclinata sulla mano, Con il gomito appoggiato sul bordo del tavolo, con il cucchiaino nell’altra mano, che tocca la torta di panna. Un attimo di silenzio.., e poi Maria Pia Ciravegna, quella che meglio imitava la Reviglio, scandisce "Tìtyre, tù patulàe recubàns..." tac!, un colpetto al gomito e la testa di Milano cade sulla meringa.

Non dobbiamo aspettare la fine dell’ora per ridere: la risata scoppia forte, giovane, immediata. La voglia di stare insieme, la consapevolezza di sentire gli altri vicini, il desiderio di ridere e di scherzare per le stesse cose, sono per incanto ritornati. Per un breve e lunghissimo attimo siamo i ragazzi di allora: il boom economico, i matrimoni, i figli, il ‘68, la crisi economica, i problemi finanziari, la violazione dei diritti civili, il dolore che ci ha marcati... tutto è sparito.

Si è dileguato in una lunga e irresistibile risata di 30 anni fa.

11 Dicembre 1982

Rina Cravero
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