LA SCUOLA SAVOIARDA DALLA PESTE IN POI - II parte (Febbraio 2022)

(continuazione della I parte)

      Nota – Molte frasi del brogliaccio che sto pubblicando non sono parole mie, ma certamente di autori specifici, su cui mi ero preparato per il mio insegnamento. Purtroppo, mi è impossibile citarli, perché non ho la minima idea dove li avessi trovati. Chiedo venia agli autori a me ora sconosciuti, ma interessanti per il loro approfondito dire.

      E’ interessante, anche vedere come si valutava l’idoneità all’insegnamento elementare. Per essere idoneo, il maestro doveva sostenere un esame davanti al Riformatore del Capoluogo; per la prima classe, bisognava saper leggere un brano di prosa in italiano, qualche brano di preghiera in latino, saper scrivere una lettera in modo chiaro, saper riassumere un racconto per iscritto, saper compilare una quietanza, rispondere a domande su regole sulla divisione in sillabe e sulla dottrina cristiana. Per la seconda classe, bastava conoscere, in più, le quattro operazioni e gli elementi della grammatica italiana.
      Pur con un programma così limitato, le disposizioni di Carlo Felice ebbero una lenta applicazione; nel 1840, un gran numero di Comuni era ancora senza scuole e un calcolo effettuato nel 1840 dava circa il 60% della popolazione dello Stato sabaudo analfabeta.
      Nel 1822 vennero anche riorganizzate le scuole medie. Lo studente poteva accedersi solo con l’admittatur del Prefetto agli Studi (una specie di Provveditore agli Studi), che lo rilasciava in base alla testimonianza del parroco vistata dalla Curia, da cui doveva risultare che nelle vacanze estive il giovane aveva frequentato con assiduità le funzioni parrocchiali, accostandosi ogni mese al sacramento della penitenza. Ogni scuola media aveva il direttore spirituale, che ogni bimestre firmava l’admittatur, cosa che dovevano fare anche il Prefetto agli Studi ed i professori; se mancava una firma, lo studente era escluso dalla promozione. Pene severe, fino alla perdita del posto, erano comminate ai professori che ammettessero studenti sprovvisti dell’admittatur.
      L’insegnamento medio era affidato al clero; per poter insegnare occorreva un’idoneità generale, chiamata patente, un certificato di buona condotta da richiedersi al Vescovo ogni anno e, in più, una patente dell’Università locale che autorizzava il docente ad insegnare in quella data città.
      Gli studenti erano controllatissimi; non potevano giocare nelle vie e nelle botteghe, non potevano pranzare e bere in trattoria, né conversare al caffè, né recitare nei teatri.
      La classificazione del profitto avveniva con i seguenti giudizi, in ordine decrescente: egregie, optime, fece optime, fece bene, medie, nescit, male. Per meglio inquadrare la situazione, anche nei confronti del momento storico, si lascia la parola a Francesco Cognasso, in Vita e Cultura in Piemonte: “Attorno alla questione dell’istruzione popolare sin quasi alla vigilia del 1848, si combattè in Piemonte un’aspra tenzone. Nel 1844 il ministro Solaro scriveva al Re contro la scuola. Occorreva elevare buoni cristiani, artigiani virtuosi, sudditi fedeli, e non cercare di più, diceva: "Lo scopo degli altri è di elevare il popolo alla conoscenza dei suoi pretesi diritti, di rendere le sue condizioni insopportabili, fargli desiderare un miglioramento ideale, creargli dei bisogni che non potrà soddisfare, idee che lo rendono inquieto, disgraziato, ribelle. Ma da molte parti si aspira ad un popolo colto”.
      Il Giovanetti di Novara scrive nel 1839 di una sua scuola popolare: “Il mio istituto è destinato a dissipare l’ignoranza”. Il Pettiti nel 1846 scrive: “L’educazione, ecco la nostra ancora di salvezza”. Il Giulio nel 1844 scrive: “Quando le scuole elementari dirette da maestri esperti dei buoni metodi avranno sparsa la cognizione della lingua scritta…”.
      Carlo Alberto tace; solo nel 1841 per suo invito il Giovanetti scrive una memoria sul riordinamento dell’istruzione elementare, già deciso dal Re.
      Vi saranno scuole diurne per ragazzi e serali per gli operai. Ma si va adagio. Se nel 1837 un sacerdote di Gamalero lascia un capitale per istituire una scuola nel suo paese natio, è del 1841 una lettera di un operaio savoiardo che con i suoi colleghi invia una somma per creare una scuola nel suo villaggio di Allues (ora Les Allues, comune situato nell’ex Savoia piemontese, ceduto alla Francia con la Savoia).
      Anche in Piemonte sorgono asili d’infanzia, sebbene osteggiati dal clero e dai reazionari. Il primo fu fondato dal marchese Tancredi Falletti di Barolo nel 1832, due anni dopo quello di Ferrante Aporti a Cremona. Il padre del Tancredi era il marchese Ottavio, attivo membro delle logge massoniche di alcuni decenni prima. Anche Roberto d’Azeglio fondò una scuola per l’infanzia nel 1835. Nel 1838, lo stesso d’Azeglio, Federico Sclopis, Cesare Alfieri, Carlo Petitti ed altri benestanti – compreso Camillo Benso conte di Cavour – chiedevano al Re di poter costituire una Società per l’istituzione delle scuole infantili.
      L’anno dopo, il Boncompagni pubblicava un’opera famosa: Delle scuole infantili. Ed in quegli anni, Giuseppe Cottolengo e Giovanni Bosco creavano le loro opere grandiose per il sollievo degli infelici e la protezione dei giovani.
      E tutte le iniziative riescono solo attraverso alle più gravi opposizioni; persino l’adunata dei ragazzi, fatta da don Bosco per toglierli dalla strada, fu considerata pericolosa per l’ordine pubblico.
      Così quando Ferrante Aporti nel 1844 venne a Torino a tenere un corso straordinario di metodo, insegnamento che doveva infondere nuova vita con nuove idee nell’insegnamento, di fronte si rizzarono ad impedirlo sia il ministro Solaro della Margarita sia l’arcivescovo di Torino, Monsignor Franzoni, quello stesso che poco prima aveva combattuto la letteratura popolare rea di far ingiustamente apparire la virtù come tipica della plebe ed il vizio tipico dei nobili.
      In mezzo a questi contrasti lentamente penetra nella classe borghese, la classe dell’avvenire, il pensiero alfieriano.
      Con queste strutture scolastiche, il Piemonte arriva alla prime guerre d’indipendenza e, poco dopo, all’unità nazionale.

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