CI PENSI LA SCUOLA! (Febbraio 2018)

      Fra un mese voteremo e, finora, non sono riuscito a sentire un programma elettorale che parli in modo concreto (ripeto concreto) della scuola. Chi dice che la Buonascuola è un successo (in buona parte concordo), chi dice che va abolita; ma il tutto in modo generico, come se si parlasse di un qualcosa che bisogna dire, per captare la benevolenza di docenti e genitori, senza urtare nessuno dei due corpi sociali. Il politico, quando parla di scuola (il ministro no, finora non ha aperto bocca), cerca di non inimicarsi né docenti né genitori, come don Abbondio, che “stava col più forte, sempre però alla retroguardia, e procurando di far vedere all’altro che egli non gli era volontariamente nemico: pareva che gli dicesse: ma perché non avete saputo esser voi il più forte? ch’io mi sarei messo dalla vostra parte”.
      Su un punto, però, sono tutti d’accordo: nell’accusare la scuola di non educare moralmente e civilmente (che sarebbero poi la stessa cosa) i giovani, portando ad esempio il bullismo, gli stupri del branco, gli scippi, i pestaggi, l’arrostimento dei barboni, l’ammazzamento di qualcuno che ha osato guardarli in faccia, il tutto fatto preterintenzionalmente, ovviamente, così dirà la giustizia.
      La scuola ha la sua piccola parte di colpa, perché quando il ministro parla di tolleranza zero, parla, ma finisce lì; lo spirito sindacale di difendere sempre e comunque il docente è un virus incurabile, occultabile col prendere qualche esempio a caso da punire in modo eclatante.
      Ma una scuola capace, seria, onesta (e lo è, checché ne dicano certe associazioni di genitori) non basta ad inculcare onesti princìpi ai giovani; non bastano nemmeno gli oratori e certe lodevoli associazioni giovanili. I princìpi di onestà e correttezza si respirano fin dalla tenera età, dalla prima infanzia, e si ricevono soltanto in famiglia.
      Le famiglie (quando ci sono, ma questo è un altro discorso) non assolvono a questo compito se non danno, con costanza, l’esempio. Quando il bambinetto vede che il papà è orgoglioso per non aver pagato l’IVA, la madre per aver eluso il bigliettaio sull’autobus, entrambi per aver scantonato dopo aver urtato un’auto in sosta, impara ad essere stimolato all’imitazione, sicuro che da grande troverà un giudice che dirà: poverino, è disadattato, va compreso, e condannerà il capotreno che lo avrà fatto scendere perché senza biglietto.
      Ma la scuola che cosa può fare? Niente, se niente fanno i politici. E questi? Potrebbero - a cominciare da chi sarà Ministro della P. I. - iniziare a ristabilire le distanze fra docente ed allievo, riportando in auge il rispetto di tanti anni fa.
      La maestra sia la signora maestra, non Raffa, Ale, Gianna, eccetera e, quando a lei si parla, ci si alzi in piedi, così come quando entra od esce dalla classe.
      Il bravo professore non dia pacche sulle spalle agli allievi (meno ancora alle allieve), sia gioviale e cordiale, ma non transiga su un minimo di educativo rispetto.
      Noi, vecchi studenti ottantenni, amiamo ancora adesso i nostri insegnanti, tutti, anche quelli che ci bocciavano. L’altra settimana, comprando il vino da un vignaiolo quasi coetaneo del mio paese, lo sentii lodare il nostro vecchio maestro unico: “sai che ancora adesso so fare la radice quadrata, so l’analisi logica, so distinguere te da tu, gli da loro, per imbottigliare so fare il calcolo dell’epatta? So la storia del tamburino sardo e di Garibaldi da Quarto, so che l’Inghilterra voleva l’Africa da Nord a Sud e la Francia da Est ad Ovest e a un certo punto litigarono (Fascioda, lo aggiungo io, che ricordo ancora il mio maestro con la canna in mano di fronte alla carta geografica)”. E’ vero, anch’io, in altra classe, imparai tutte quelle cose; ancora mi commuovono gli Orazi e i Curiazi, i fratelli Fileni e Muzio Scevola. Ancora adesso vado a rileggermi, e mi commuovo, Ovidio: “Cum subit illius tristissima noctis imago...”, tradotta e studiata a memoria in terza media, quando le lezioni iniziavano il 1° Ottobre (sempre un po’ dopo) e terminavano all’inizio di Giugno e le ore, in sei giorni, erano 28 e di sessanta minuti.
      Al Liceo, poi, nessun professore dava del tu ad una studentessa, ma solo del lei; il tu era per noi maschi. Il preside, poi, era un’autorità riverita, rispettata ed amata. Le mie mefistofeliche compagne, nella piccola cittadina, a volte si divertivano ad intercettarlo a pochi metri l’una dall’altra mentre faceva la passeggiata preserale. “Buona sera, signor preside” diceva la prima. “Buonasera, signorina” rispondeva togliendosi con la destra il Borsalino. Ricoperto il capo, compariva la seconda: “Buona sera, signor preside” e di nuovo, impeccabile, la risposta “Buona sera, signorina” con tanto di immediata nuova scappellatura. E via di seguito per 5/6 volte.
      Venivamo forgiati, non ad usare il computer, ma a capire la vita, la storia dell’umanità, il pensiero dei secoli, la disponibilità ad affrontare qualunque difficoltà nella vita. E qualunque lavoro.
      Non piagnucolavamo tanto. Sono per sempre grato ai miei professori che mi rimandavano senza pietà, ma capivano perché studiavo poco; in seconda e terza liceo, per necessità, avevo un contratto di lavoro che m’impegnava parecchio; ogni mattina, dovevo uscire dalla classe esattamente cinque minuti prima dell’ultima campanella e non ci fu professore che non mi tenesse d’occhio e, nei pochi casi in cui mi distraevo (o mi addormentavo) mi faceva discretamente il cenno che significava “Ferrero, devi andare a lavorare”. Non ero pigro, ma alla sera finivo alle dieci e lo studio era quello che era. Al mattino, poi, avevo un’ora e mezza di lavoro dalle 6,30 alle 8 e dovevo sempre correre. I professori lo sapevano e, per alleggerirmi la borsa quando c’erano i numerosi compiti in classe (latino e greco), mi facevano sempre trovare sul banco il dizionario. Ringrazio la scuola che - in aggiunta alla famiglia - mi insegnò a vivere e ad essere comprensivo verso gli altri. Gli stessi sentimenti devono essere restituiti ai giovani d’oggi, ma, se non fa il lavoro principale l’onestà familiare, non basterà la scuola.

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