“Posso resistere a tutto tranne che alle tentazioni”, disse Oscar Wilde e nel suo dire mi ritrovo. Non vorrei più parlare di Scuola, ma non ce la faccio.
In questi ultimi tempi, ho seguito alcuni scritti, articoli, interviste auspicanti uno studio massiccio dell’educazione civica. Bello, bellissimo, ma come?
Per decenni l’educazione civica navigò tra i banchi di scuola; testi appositi (e a volte cari) incitavano al suo studio, ma ho il dubbio che il risultato sia stato mediocre.
Certamente, si sono sviscerati i vari articoli della nostra Carta, se ne è spiegato il significato, la necessità della stessa (e della relativa Corte Costituzionale). Conclusione: i giovani sono cambiati in meglio? E anche sul “meglio” bisognerebbe intenderci, ma lasciamo stare, Cirinnà permettendo.
Serve il solo studio degli articoli della Costituzione? Penso al delinquente abituale, all’affarista disonesto, al politico soltanto ambizioso o, peggio ancora, avido: sono certo che, per esempio, conoscono a menadito gli articoli del codice penale, di quello civile, delle relative procedure, dei codici commerciali, eccetera. Sono diventati onesti?
Purtroppo, senza l’esempio è difficile diventare onesti, cioè, cittadini che attuano l’educazione civica. Ma è ancor più difficile dare l’esempio o citare gli esempi concreti che toccano l’ascoltatore.
Quale insegnante si azzarderebbe a dire ai propri allievi: i tuoi genitori pagano sempre l’IVA? Se urtano un pochino un’auto nel parcheggio cercano il proprietario danneggiato? Se il cartello indica divieto di sorpasso evitano di affiancarsi? Se salgono sul bus pagano sempre il biglietto? Se il negoziante si sbaglia in più nel resto glielo fanno notare? Se sono ad uno sportello rispettano la coda? La velocità dell’auto è sempre nei limiti? Se vendono una merce alimentare o un oggetto ne fanno presenti gli eventuali lati negativi? Eccetera. Ma porre tali domande agli allievi non si può. E la privacy? Strillerebbero i genitori e ricorrerebbero al TAR.
In un film, c’era Mario Carotenuto (buonanima) che impersonava il commendatore generoso in un lido frequentato. Era circondato da lecchini che lo ossequiavano e, da buoni italiani, gli davano sempre ragione. Passava in rivista i castelli di sabbia costruiti dai bambini, riservandosi di premiare il più bello. Ce n’erano di splendidi, con torri, merli, ponti levatoi, fossati. Uno, di un timido bambino, era solo un mucchietto di sabbia su cui era infilzata una bandierina tricolore. Il commendatore si fermò e disse: questo va premiato. Tutto il suo entourage, nascondendo lo stupore, prese a dire: eh, sì, esprime un certo sentimento e anche bellezza patriottica… No – interruppe il Commendatore – è il più brutto, ma bisogna che si abituino fin da bambini alle ingiustizie!
Ogni lettore ne tragga la conclusione.
Ora, si proclama che l’insegnamento deve essere un gioco, un’allegra e dialettica riunione in cui si imparano tante cose, soprattutto tecniche, soprattutto di moda.
Io rimango dell’opinione di Gramsci, che espressi due mesi fa e che ripeto, nella speranza che qualcuno ci mediti sopra (e sono parole scritte mentre era in carcere, con ben altre preoccupazioni personali da risolvere):
“Occorre persuadere molta gente che anche lo studio è un mestiere, e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio, oltre che intellettuale, anche muscolare-nervoso: è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo, la noia e anche la sofferenza.
La partecipazione di più larghe masse alla scuola media tende a rallentare la disciplina dello studio, a domandare «facilitazioni». Molti pensano addirittura che la difficoltà sia artificiale, perché sono abituati a considerare lavoro e fatica solo il lavoro manuale. È una questione complessa.”
Se ci riuscirò, non parlerò più di scuola.
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